«Stesso lavoro, meno soldi. La battaglia di noi donne»

Oltre confine A poche settimane dallo sciopero, intervista alla delegata alle pari opportunità del Canton Ticino: «Le discriminazioni sono frutto di tradizioni e stereotipi. Essere mamma non può diventare un impedimento»

A poche settimane dallo sciopero femminista del 14 giugno, che ha riempito le strade di donne e uomini decisi a portare avanti le rivendicazioni femminili in Svizzera, un tema resta caldo: la disparità salariale. Secondo le statistiche federali, la differenza di importo è del 18% di media con un 8% di disparità non imputabile ad altro se non al sesso. Rachele Santoro, delegata per le pari opportunità del Canton Ticino, apre sull’argomento un ventaglio di analisi.

Dottoressa Santoro, lo sciopero del 14 giugno ha portato in piazza la necessità di rispondere alla domanda: la disparità salariale tra donne e uomini esiste ancora?

La disparità esiste ancora, assolutamente sì. Le statistiche federali lo dimostrano. I dati ci dicono che la differenza di salari è del 18%. Bisogna però distinguere due tipi di disparità: quella spiegabile da fattori come anzianità di servizio, livello di formazione e quella non spiegabile se non dal genere, che cela una discriminazione salariale. Il 18% è la differenza salariale media tra stipendi maschili e femminili rapportati a una percentuale di lavoro del 100% e nasconde il fatto che tra uomini e donne ci sono ancora percorsi di vita, e quindi di carriera, diversi; le donne rinunciano ancora di più degli uomini parzialmente o totalmente al lavoro dopo l’arrivo dei figli con conseguenze su stipendio, carriera e accesso alla formazione continua. Poi, c’è un 8% che dice che, anche a parità di esperienza, formazione, complessità del lavoro, la disparità esiste e non è che di sesso. La disparità poi aumenta con la funzione, tra i quadri superiori arriva al 25%.

Come è possibile?

Questo perché, di regola, alle posizioni dirigenziali vi accedono persone con esperienza lavorativa e le donne che hanno conciliato lavoro e famiglia hanno magari fatto delle pause lavorative con conseguenti lacune sull’anzianità di servizio, e in parte al fatto che le donne dirigenti sono retribuite meno ed è dunque una discriminazione. Alcuni studi dimostrano che lo stipendio è ancora spesso un argomento tabù del quale si parla poco e che le donne sono meno disposte a negoziarlo, valorizzando e riconoscendo le competenze acquisite. Le donne accettano lo stipendio proposto e questo determina la loro progressione salariale per tutta la vita lavorativa. E poi, se una donna è uscita per un periodo dal mercato del lavoro per dedicarsi alla famiglia, questi anni sono “persi” per il lavoro. Ci sono alcuni Cantoni e Comuni, come la Città di Zurigo, che riconoscono questi anni come esperienza lavorativa per le competenze acquisite durante la maternità, come quelle organizzative, relazionali e altro, che sono preziose a livello professionale. Ma c’è ancora tanto da fare.

Le donne hanno chiara percezione della propria disparità salariale?

La percezione c’è, ma si parla molto poco di salari perché in Svizzera non c’è la trasparenza degli stipendi, a meno che non si lavori nel settore pubblico dove le scale salariali sono pubbliche. Nel privato, l’entità del salario spesso la si scopre solo parlando alla macchinetta del caffè. Per questo è molto difficile rendersi conto di essere vittima di discriminazione salariale e far valere i propri diritti poiché si ha paura di perdere il lavoro. Inoltre, dal primo luglio 2020, è entrata in vigore la modifica della legge federale sulla parità dei sessi che obbliga le aziende con almeno 100 dipendenti a svolgere un’analisi interna della disparità salariale. Purtroppo tocca poche realtà ticinesi, poiché oltre il 95% delle aziende ha meno di 100 dipendenti e non sottostà ai nuovi obblighi di legge.

Nelle piccole e medie imprese la disparità salariale può essere solo sessuale?

Non penso che da parte dei datori di lavoro vi sia una volontà diretta di discriminare, ma spesso le discriminazioni sono il risultato di tradizioni, abitudini e stereotipi di genere e quindi più subdole e nascoste. Un esempio? Al dipendente diventato papà si dà un bonus perché deve mantenere la famiglia, visto che l’uomo è ancora visto come il breadwinner, che porta a casa il pane, ma non alla donna quando diventa mamma. Oppure alle lavoratrici mamme si danno compiti meno interessanti e difficili perché si presume che non siano sufficientemente dedite al lavoro.

Si sta facendo qualcosa per superare questa situazione?

Un po’ la situazione sta evolvendo perché le donne sono sempre più formate, accedono a lavori meglio retribuiti e la maternità è un ostacolo sempre minore alla carriera perché le donne rientrano più presto al lavoro. Inoltre sempre più uomini desiderano dedicarsi alla cura dei figli lavorando a tempo parziale. Infine, le leggi possono fare la loro parte per raggiungere la parità salariale. Da qualche anno la Confederazione ha sviluppato uno strumento statistico che permette anche alle piccole e medie imprese di verificare il rispetto della parità salariale, ma non c’è un obbligo di legge e quindi poche vi fanno capo. Si vedrà se la politica darà un segnale diverso in futuro, imponendo l’obbligo di legge.

Sono molti i papà che scelgono il tempo parziale per la famiglia?

Più o meno il 17%, pochi rispetto al 55% delle donne, ma molti usufruiscono del congedo paternità di due settimane e ciò dimostra la loro voglia di essere più presenti in famiglia.

Oltre al salario, le donne al lavoro subiscono altre disparità?

I problemi sorgono quando c’è la conciliabilità lavoro-famiglia che porta anche a licenziamenti spesso dopo il secondo figlio. La legge federale sulla parità dei sessi vieta il licenziamento discriminatorio, ma l’azienda spesso riesce a giustificarlo con una riorganizzazione interna. Un altro tema per cui tante donne chiedono aiuto è il clima di lavoro. Diventate mamme subiscono commenti e rimproveri dai colleghi, con frasi tipo “adesso l’abbiamo persa, ha altro per la testa” e vengono demansionate. Una sorta di mobbing che rende il clima di lavoro sessista molto difficile da sopportare. Il cambiamento deve essere culturale: non bastano le leggi.

Si può essere ottimisti?

Sì, lo hanno dimostrato i tantissimi uomini giovani in prima fila con le donne ai cortei del 14 giugno. I giovani hanno una concezione diversa di famiglia, ruoli, identità di genere e orientamento sessuale; bisogna vedere poi se riescono a farla passare nelle aziende. Però si fanno passi avanti anche sul tema molto delicato del senso di colpa delle donne che, se amano lavorare sono additate come cattive madri, se invece lavorano desiderando di stare in famiglia si sentono in colpa verso il lavoro. Non serve il messaggio delle wonder women che fanno tutto, ma maggiore flessibilità lavorativa per entrambi i sessi. Speriamo che vi siano presto delle nuove politiche familiari che introducano i congedi parentali suddivisi equamente tra uomini e donne che ora in Svizzera non ci sono.

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