Il barbiere formato luxury. Così la sfida di Barberino’s ha fatto centro

L’intervista Michele Callegari, cofounder di Barberino’s, catena presente in cento negozi in Italia e ora anche a New York. «Gli ostacoli? Il Covid e il reddito di cittadinanza. Negli Usa regole chiare, da noi spesso tanta diffidenza»

Un filo lungo più di un secolo che inizia nel 1910, quando Giovanni Callegari lasciò l’Italia alla volta degli Stati Uniti per cominciare a lavorare come barbiere diventando, in poco tempo, famoso a Boston con il nome “Barberino”. All’altra estremità c’è Michele Callegari, 41 anni, fondatore (con l’amico Niccolò Bencini, 39 anni) di Barberino’s in onore di quel Giovanni, suo bisnonno.

Una ripartenza, più di cento anni dopo, che affonda le radici nell’eredità familiare, ma che oggi conta 17 negozi e si basa sullo stile italiano e sull’attenzione ai dettagli, caratteristiche di quel barbiere emigrato a Boston.

Lei ha lasciato un posto di alto livello in banca per un salto nel vuoto. Cosa gliel’ha fatto fare?

Non c’è nessun motivo particolare. Il mio lavoro nella finanza mi piaceva tantissimo, ma dopo dodici anni penso sia normale sentire il bisogno di provare una sfida nuova: creare un brand o un’azienda da zero, partendo da un semplice foglio bianco. Ero guidato anche dal desiderio di sapere se oltre ad essere un manager sarei stato in grado di essere anche un imprenditore. La mia esperienza lavorativa precedente è stata fondamentale per il successo di Barberino’s. Inoltre, mano a mano che Barberino’s cresce, devo essere sempre meno imprenditore e sempre più manager. Fare impresa è difficile, gestire un’impresa lo è ancora di più, non lo consiglio a nessuno senza prima un’opportuna dura gavetta per farsi le spalle larghe. Una decina d’anni credo sia un giusto tempo per maturare esperienza, competenze indispensabili, un network di relazioni di valore e la sensibilità necessaria.

Ci sono stati momenti in cui ha pensato che trasformare il sogno in realtà fosse molto più complicato del previsto?

Sì. Il mio progetto originale era più rapido. Volevo diventare un brand globale in poco più di cinque anni. Purtroppo, fa parte della natura umana proiettare i propri sogni, desideri o ambizioni, non pensiamo mai veramente ai famosi “disaster case” o “cigni neri” che regolarmente accadono e ci obbligano a cambiare piani. A me è toccato il Covid, due anni di tempo oltre a tanti soldi persi. Ma ci siamo rimboccati le maniche e, alla fine, ne siamo usciti più forti. Un altro elemento per noi devastante è stato il reddito di cittadinanza. Per un periodo abbiamo fatto molta fatica ad assumere: quasi nessuno dei candidati voleva il contratto regolare a tempo indeterminato in quanto, lavorando in nero, avrebbe potuto cumulare il reddito.

Dal primo negozio in corso Magenta a New York. Qual è stato il momento di svolta?

Quando abbiamo aperto in corso Magenta portavamo un concept nuovo, il barbiere rivisto in chiave lussuosa. Eravamo i primi a rimanere sempre aperti, anche la domenica e il lunedì e con orario continuato. Oggi sembra normale, ma anni fa non lo era. Siamo stati anche i primi con una App di prenotazione oltre che tra i primi a fare trattamenti viso pensati esclusivamente per l’uomo.

Dopo tre mesi eravamo pieni e dovevi prenotare 4-5 giorni prima per trovare posto. Lì già sapevamo che era la strada giusta, che c’era un vuoto di mercato e che il nostro era il brand giusto per coprirlo. Si trattava solo di scalare e farlo nel miglior modo possibile.

Puntate ad espandervi ancora? Avete pensato anche a Como?

In Italia siamo distribuiti in oltre 100 negozi, considerando i nostri 17 negozi di proprietà, le profumerie Pinalli e i department store Coin e Coin Excelsior. Siamo contenti del lavoro fatto, ma pensiamo che il nostro focus nei prossimi anni sia rappresentato dagli Stati Uniti d’America.

Il nostro primo punto vendita a New York sta andando molto bene, abbiamo uno scontrino medio di 150 dollari (contro 35 euro in Italia) e una traction iniziale che ha superato le nostre previsioni. Per questo vogliamo mantenerci focalizzati su quel mercato. In sei mesi gli Usa rappresentano già il 15% del nostro fatturato. Sull’Italia ci concentreremo su location turistiche, abbiamo aperto un corner temporaneo a Forte dei Marmi e stiamo studiando la possibilità di fare altrettanto a Como, dove siamo già presenti nel Coin della città.

Tra i soci è entrato anche l’ex giocatore della Juve Marchisio. Come è nata la partnership?

Avevamo bisogno di un brand ambassador che amplificasse la comunicazione del nostro brand, ma doveva essere in linea con filosofia e valori del marchio. Tra un incontro e l’altro viene fuori il nome di Marchisio. Quando lo abbiamo incontrato è stato amore a prima vista. Non avrei immaginato nessuno più perfetto di lui: elegante ma discreto, atleta vincente, simbolo di disciplina nello sport e nella vita. Sono contento che anche lui si sia ritrovato in noi. Credo abbia portato un valore enorme a Barberino’s, non solo a livello comunicativo ma anche organizzativo interno grazie al suo esempio e alla sua motivazione. Gliene siamo tutti molto grati.

Che differenze ha trovato tra la burocrazia italiana e quella di New York?

Troppe purtroppo. In America hanno regole molto chiare e precise che non lasciano dubbi interpretativi, quelle sono e quelle rimangono e non cambiano frequentemente. Se hai un progetto e vuoi investire ti ascoltano senza pregiudizi anche se sei straniero, interessano solo il merito e la credibilità. In Italia abbiamo trovato tanta diffidenza, soprattutto all’inizio e diversi Comuni ci hanno messo i bastoni tra le ruote in maniera insensata e gratuita. Emblematico il caso di Verona che ci ha imposto la chiusura del punto vendita in maniera illegittima come dimostrato dalla recente sentenza del Consiglio di Stato. Purtroppo, ci abbiamo messo quasi 18 mesi per arrivare alla sentenza e, ormai, avevamo già smantellato il negozio. Ma è stata una battaglia che abbiamo voluto portare avanti fino alla fine per dimostrare che eravamo nel giusto e per essere da esempio e supporto per tutti quei piccoli artigiani e imprenditori che hanno subito ingiustizie da parte della burocrazia italiana ma non hanno avuto la forza economica e mentale per combattere. Tutto questo tuttavia è assurdo, basterebbe lasciare lavorare chi vuole lavorare e avremmo più Pil e più tasse per tutti.

Adesso lei fa il pendolare tra Lombardia e States. Quanto conta il controllo diretto del titolare sull’avvio di un punto vendita?

Passo mediamente due settimane in Usa al mese. Voglio essere presente soprattutto per capire in prima persona come il brand è recepito in quel Paese e se serve adeguare alcuni valori alla cultura americana. Inoltre stiamo cercando di impostare una organizzazione veramente internazionale con la possibilità di interscambio tra i dipendenti dei diversi Paesi.

Sono cose nuove per noi, ma prendo spunto dalla mia esperienza lavorativa precedente. Mi sentirò realizzato quando la mia presenza sarà inutile e il brand camminerà con le sue gambe indipendentemente dal Paese in cui si trova.

Cosa consiglierebbe a un giovane con un sogno nel cassetto come il suo?

Fare impresa è duro e faticoso. Il 95% delle nuove aziende/prodotti fallisce entro quattro anni. Anche nei pochi casi positivi il tempo medio per una exit è 12 anni.

La prima cosa da fare è una riflessione interiore profonda sui propri obiettivi professionali e aspirazioni personali di lungo termine. Il periodo che va dai 25 ai 35 anni è il momento migliore per capire veramente cosa si vuole fare e poi buttarsi.

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