Dazi, terremoto di sistema: «Italia fragile»

L’intervista L’economista Luciano Canova indica nella polverizzazione delle imprese il principale fattore di svantaggio

L’atteso profondo cambiamento politico inaugurato dalla nuova presidenza Usa e l’annuncio dell’aumento dei dazi doganali provoca forti tensione sui mercati. Ma Luciano Canova, divulgatore di economia, avverte: nella guerra commerciale non vince nessuno.

Perché?

Alzare dazi, erigere barriere può sembrare un attacco furbo ai concorrenti stranieri, ma presto presenta il conto anche nel Paese che prende questa iniziativa: aumentano i prezzi, i costi vanno alle stelle per i consumatori e per le imprese che importano materiali. I posti di lavoro sono a rischio quando le esportazioni calano e ovviamente gli altri Paesi reagiscono con altrettante tariffe. Si crea un circolo vizioso che rischia di trasformarsi in un domino pericoloso. Non è la prima volta che accade. Negli anni ’30, in piena grande depressione, molti Paesi alzarono muri doganali per proteggersi. Il risultato fu che il commercio mondiale crollò, la crisi economica peggiorò e le tensioni tra nazioni si acuirono. Tutto questo contribuì a spingere il mondo verso un conflitto mondiale. La storia quindi insegna quanto può essere caro il prezzo del protezionismo estremo.

Stiamo correndo un rischio analogo?

No, perché dopo quella lezione il mondo ha scelto un’altra strada, quella della cooperazione e del libero scambio. La globalizzazione ha molti difetti, ma ha un grande pregio: ha legato tutte le economie del pianeta che sono interdipendenti, per cui oggi fare la guerra anche solo commerciale a un Paese partner significa colpire se stessi. Il protezionismo oggi è antistorico. Se negli anni ’30 i prodotti venivano assemblati, distribuiti e spesso esportati da un singolo Paese, oggi è estremamente difficile identificare il punto esatto di produzione e assemblaggio di un prodotto. Viviamo in un mondo perfettamente integrato e sostenere un sistema chiuso è strutturalmente errato. Questo vale anche per alcuni settori del nostro Paese, come l’agroalimentare italiano, per esempio, che esporta notevoli quantità di prodotti, ma vorrebbe all’interno maggiore protezione, cosa che non funziona. Il mercato globale non è un gioco a somma zero, ma alla fine la globalizzazione, in teoria e in pratica, porta vantaggi a tutti i Paesi coinvolti nello scambio.

Possiamo considerare le minacce sui vertiginosi aumenti dei dazi all’Europa come una strategia per rinegoziare accordi commerciali?

I dati forniti dalla Fed, che ha stimato la crescita dell’economia americana fino alla fine del 2025, sono impressionanti. Ma, già solo con gli annunci di Trump, in pochi giorni, abbiamo visto una notevole reazione anche interna. È vero che annunci e fatti non sono mai completamente congruenti. In un contesto strategico, come quello della teoria dei giochi in economia, fare un’affermazione forte può servire come leva negoziale. Tuttavia, come strumento politico, presenta un fattore di incertezza molto ampio.

Dopo un certo periodo, infatti, i mercati possono non crederci più.

Intanto il Canada ha iniziato a fare ritorsione, annunciando dazi sui prodotti statunitensi in risposta alle politiche di Trump. Lo stesso potrebbe accadere con le importazioni dal Messico. L’effetto finale dei dazi non può che tradursi in un aumento dei costi, sia per chi impone nuove tariffe sia per chi le riceve. L’unica conseguenza chiara di questa situazione è la crescente incertezza che coinvolge chi produce e chi lavora.

Riguardo a quello che potrebbe accadere in Italia: seguiremo il destino dell’Europa?

Le attuali dinamiche hanno già un impatto su un’economia che risulta vulnerabile a questi cambiamenti come la nostra. L’Italia è parte dell’Europa, gli scambi avvengono all’interno di un contesto europeo, per cui l’Italia non può fingere di essere isolata in questo ambito. Pensare a relazioni differenziate con gli Usa è un’illusione priva di fondamento e i dazi introdotti sui prodotti provenienti dall’Unione colpiranno anche i nostri prodotti.

Oltre a ciò, l’Italia è un Paese nell’Ue che non gode di una forte stabilità economica. Attualmente, il tema del debito pubblico potrebbe tornare al centro del dibattito. Il recente inasprimento delle politiche di riarmo in Germania ha avuto come conseguenza un cambio della posizione tedesca sul debito pubblico e questo ha provocato la reazione dei mercati e un aumento dei tassi di interesse sui titoli tedeschi, che sono il punto di riferimento per calcolare lo spread, con un effetto negativo su un Paese come l’Italia, che ha un debito molto più elevato rispetto a quello tedesco.

Si tratta di una situazione complessa, con numerosi fattori di fragilità che erano stati ampiamente previsti e che ora, sotto stress, si stanno rivelando in modo più acuto.

Quali sono i limiti dell’economia italiana che la rendono più esposta a una guerra commerciale, oltre all’alta percentuale di esportazioni?

L’Italia soffre di un gap rispetto alle economie europee più forti e all’economia americana: abbiamo un tessuto industriale molto atomizzato, dove le piccole imprese per anni hanno preferito delocalizzare parti della produzione piuttosto che crescere e avere una maggiore forza. Questo è il momento in cui i limiti di un sistema economico fragile iniziano a manifestarsi. Anche se è vero che possediamo nicchie di eccellenza nel settore: chi cerca un particolare pezzo di meccanica o un arredamento su misura deve necessariamente rivolgersi a noi.

Tuttavia, la massa critica di queste eccellenze è sufficiente per dare stabilità a tutto il sistema economico?

I beni di lusso affrontano una domanda meno elastica, ma non sempre questo è sufficiente. Anche i marchi di prestigio, nonostante la loro reputazione, hanno visto una riduzione delle vendite, in particolare nel mercato cinese. I prodotti di alta qualità non trovano necessariamente sempre protezione, specialmente quando i prezzi aumentano. Siamo dunque di fronte a una situazione in cui l’imprenditoria italiana deve decidere se mettersi in gioco e investire o continuare a vivere di rendita. Ecco che emerge l’effettivo rischio: l’atteggiamento di chi si sente già eccellente, ma non si rende conto che gli altri stanno competendo e che anche i migliori produttori devono adattarsi per affrontare le sfide attuali.

La crisi della manifattura, in questo momento, potrebbe quindi incrociarsi con una riduzione delle esportazioni?

Sembra che il dibattito sia determinato dalla chiusura delle fabbriche e dalla conseguente perdita di posti di lavoro. Ma l’elemento strutturale di debolezza della nostra economia è l’elevato numero di microimprese e finora non abbiamo mai affrontato seriamente questa questione. Di solito la crescita standard per un Paese prevede il passaggio dalla piccola manifattura alla formazione di imprese di dimensioni maggiori e il potenziamento dell’economia attraverso investimenti in ricerca, sviluppo e innovazione tecnologica, che aumentano la produttività e aprono a nuove opportunità, fino ad arrivare un’economia di servizi specializzati ad alto valore. L’Italia però non è riuscita a scalare l’economia dei distretti, un sistema che era efficace negli anni ’70 con le piccole imprese che si alleavano per costruire una base economica solida. Quest’approccio è ora diventato un punto di debolezza di fronte a un mercato globale che ha visto l’emergere di giganti come Cina e India.

La manifattura italiana, che rimane forte in Europa, sembra essersi rifugiata in una sorta di corporativismo difensivo, che presenta anche argomenti critici. Quando si solleva un dibattito su come rinnovare il Paese, si tende a puntare il dito verso gli altri. Ma la verità è che il nostro sistema non si è mai realmente evoluto.

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