Design e arredo a una svolta: «Elogio dell’imperfezione»

Intervista L’architetto Patricia Urquiola indica la rotta nell’epoca dell’eco-design. Le aziende della Brianza: «Sempre state avanti, competitive»

«Imperfetto e ibrido sono i concetti che ci aiutano a muoverci di più nella complessità». L’archistar, architetto e designer Patricia Urquiola, originaria di Oviedo, in Spagna, speaker al recente evento TEDxLakeComo tenutosi a Villa Erba di Cernobbio il 9 e 10 novembre, ha spiegato che «entrambi questi termini sono da sempre programmatici nel mio lavoro, fin dalla tesi di laurea».

Allieva di Achille Castiglioni negli anni del Politecnico di Milano, la fuoriclasse spagnola, legatissima a Como (ha curato l’interior design di hotel e boutique) e al distretto canturino/brianzolo del legno-arredo, ha svelato il segreto della propria creatività: «Quando un progetto è definito, allora io dico “ribaltiamolo”, “sovvertiamolo” e ricominciamo da capo, guardando le cose da un’altra prospettiva».

Conta, in un contesto così complesso e competitivo come il mondo dell’arredo avere «antenne larghe». Non la ricerca della perfezione porta risultati, ma al contrario «l’errore», l’ibrido. Urquiola indica una macchia d’olio sull’asfalto.

«L’ho fotografata fuori da casa mia, nelle cui vicinanze si svolge un mercato – ha raccontato – Il punto è “come la guardo”? Certo, è una chiazza. Però posso cercare di trovarci qualcosa di bello, di nuovo, un suggerimento». Nelle dinamiche globali improntate ai cambiamenti veloci, tra reale e virtuale, lo spazio delle metamorfosi risulta essere non soltanto il più promettente, ma la comfort zone ideale per un designer. «Nell’azienda di marmo dove collaboro, mi portano lastre eccezionali, ma io guardo quelle abbandonate, gli scarti, l’imperfetto: lì sono sicura di trovare le idee giuste».

“Ibridazione” e “re-design”, parole chiave del design contemporaneo, quanto sono effettivamente recepite dalle aziende?

Anzitutto sono due parole che toccano molto da vicino i processi di produzione, perché esprimono il modo di procedere naturale del design, una disciplina che parte sempre da un problema. Il design (ma anche l’architettura) si interroga costantemente per cercare di capire se c’è margine di spazio per un oggetto dell’abitare (o di altri settori). È sempre un progettare e riprogettare. Adesso stiamo passando un periodo abbastanza caotico, a causa delle mutazioni in corso. E questa situazione, secondo me, porta a una maggiore consapevolezza della limitazione in cui agiamo, produciamo, trattiamo le materie che stiamo utilizzando, i processi… c’è tanto da rinnovare. Anche l’utente, per la verità, oggi si fa più domande che in passato. Che poi sono le stesse dei designer, i quali sono pure loro stessi degli utenti. Ci chiediamo, ad esempio: “Questa seduta mi dà risposte ancora aggiornate?”, “Ne ho bisogno, oppure no?”, “Come posso semplificare?”. Tutte queste domande le portiamo nei processi produttivi. Quello che vedo è che da alcuni anni le imprese produttrici sono molto più aperte a dire: “questo è un problema”, “dobbiamo capire come affrontarlo”. La sostenibilità aiuta molto ad andare in questa direzione. Ma la strada da percorrere è lunga.

Le norme europee dell’ecodesign portano il focus su “fine vita” e “lunga durata” dei prodotti d’arredo. Come ragiona, oggi, un designer chiamato a progettare un divano o qualsiasi altro oggetto?

Come sempre, riparto da me, da chi mi sta accanto. Posso chiedermi: “quanto sto educando mia figlia ad avere maggiore attenzione sulla durata delle cose?”. Con un privato o un’azienda, se stiamo ragionando sul modo sincero di fare le cose, concepire il fine vita come elemento iniziale del produrre è doveroso, perché così si inizia a pensare, fin da principio, a come scomporre gli elementi di cui un prodotto è fatto. Dobbiamo avere subito chiaro quale impatto avrà quello che vai a produrre e come dis-assemblarlo, oltre al “gradiente di longevità”. Devo dire che questa sensibilità l’ho già incrociata in molti imprenditori. Non va abbassata la guardia. È fondamentale.

Il Distretto di Cantù e Brianza, che lei conosce molto bene, come si posiziona su queste tematiche?

La Brianza è sempre stata molto competitiva e aperta ai cambiamenti. È un’industria molto complessa e aperta all’innovazione, di qualità alta, che si fa sempre di più delle domande. Con tutte le aziende con cui lavoro, c’è sempre ampio margine per la sperimentazione e la disponibilità a rivedere il processo produttivo. Questo è un fattore importantissimo per tutta la filiera industriale.

Nella collaborazione con l’azienda Cassina, di cui lei è art director, come entra la sua filosofia dell’ibridazione?

Ci diamo stimoli di continuo, in modo bidirezionale. Per me una cosa bellissima dell’ibridazione è che ha a che fare con il dialogo. Fondamentale quando dai due lati si crea una relazione capace di stimolare, anche mettendo un po’ in crisi. Con Cassina naturalmente lo scambio è continuo, anche “fuori orario”. Le faccio un esempio: ieri sera, ultima cosa che ho fatto è mettermi in “call” con tre o quattro persone con le quali gestiamo settori diversi dell’azienda. Essendo venerdì ci siamo sentiti per fare il punto.

In un certo senso, architetto, lei vive e progetta sull’orlo del caos…

Non ne ho dubbi. Mi ritrovo anch’io nelle parole di Alberto Felice De Toni, che ho ascoltato qui a TEDxLakeComo. Tutto dipende un po’ da noi, da come vogliamo surfare sull’onda del caos: quanto vogliamo andare intorno ai progetti.

C’è una frase di Ettore Sottsass, che io amavo molto, e che le cito a memoria.

I progetti che non hanno bordi molto definiti - diceva - sono quelli che raccontano meglio le complessità e le sensibilità del mondo mutevole. Lasciare un po’ aperti i bordi, abitare in una stanza un po’ caotica... Il nostro lavoro di designer, credo, vada affrontato così. Ognuno ha un coefficiente di imperfezione che non va domato, ma accettato, sul quale va lavorato continuamente.

Guardi, oggi durante il talk, per l’emozione, non mi veniva il nome di Munari! Una personalità straordinaria del design, che mi ha sempre ispirato tantissimo. Mi venivano alla mente altri nomi, ma non il suo. Che fare? Ho riconosciuto il mio vuoto di memoria. Mi accetto come sono. E oggi, sul palco, l’emozione si è fatta sentire. Gli ideali di purezza, un po’ in tutto, nel design come nella vita, sono utopia.

L’utopia lavora con la distopia. Il campo è quello.

A proposito di campi di azione. Uno dei suoi ultimi progetti riguarda il settore tessile, precisamente la fibra Ocean-Bound-Plastic, da plastica lasciata nell’ambiente in prossimità dell’oceano (massimo 50 km), che rappresenta l’80% dei rifiuti marini.

Lei si riferisce a una delle più sofisticate fibre dell’epoca della sostenibilità. La commercializza un’azienda danese, ma viene studiata da un’azienda svizzera (la Tide, ndr). Normalmente la plastica dell’Oceano è troppo adulterata e quindi bisogna mischiarla con altre fibre plastiche, sia pure in piccola percentuale, perché sia fluida. L’azienda svizzera sa rigenerare molto bene la materia prima (Inoltre #tide lavora a stretto contatto con le comunità locali in Thailandia, Indonesia e Filippine. Organizza la pulizia delle spiagge e paga salari equi agli addetti alla raccolta dei rifiuti e ai pescatori che raccolgono la plastica, ndr). In questo momento sto seguendo alcuni bellissimi progetti con econyl e materiali “vegani”.

Il filo è una componente che ci riporta al lago di Como, dove lei è di casa anche professionalmente, per aver progettato gli interni dell’hotel Sereno e delle boutique del Gruppo Tessabit. C’è un intreccio poco noto, che ci porta alle origini della sua carriera. Vuole parlarne?

La mia tesi di laurea al Politecnico mi riporta con grande affetto e riconoscenza al lago di Como. Stavo ultimando gli studi alla facoltà di architettura. Nel momento della disperazione la Mantero mi è venuta incontro. In breve, dovevo realizzare un tappeto, che era la mia isola di senso e nessuno mi aiutava… A quel punto, è entrata in scena la Mantero.

L’azienda, alla quale esprimo ancora la mia gratitudine, mi aiutò tramite una stupenda ricercatrice, Luisa Cevese (oggi imprenditrice di “Riedizioni”, paladina delle bioplastiche, ndr) a dare consistenza alla mia ideazione. Mi fecero da angeli e, in un mese, riuscimmo nell’impresa di costruire un grande “plug”, un’enorme presa, oggetto d’arredo versatile che poteva avere anche collegamenti telefonici.

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