Eco design da governare. «Cambio di rotta dovuto, tra materiali e processi»

Svolta green Ilaria Marelli, architetto e docente al Politecnico e alla Naba. «Si fa ricerca nei biomateriali. La sostenibilità è parte della formazione»

Il mondo dell’eco design si sta espandendo sempre di più, arrivando a coinvolgere ogni aspetto della produzione industriale, dalla nascita allo smaltimento degli oggetti che utilizziamo ogni giorno e che arredano le nostre case. Ilaria Marelli, architetto, designer e art director con studio a Como, fornisce una panoramica per orientarsi tra materiali riciclati, report di sostenibilità e nuove competenze. Da sempre interessata agli aspetti sociali, culturali ed ambientali della progettazione, Ilaria Marelli è lecturer di Design Innovation al Politecnico di Milano e alla Naba, la Nuova Accademia delle Belle Arti.

A suo parere, quali sono i trend attuali più interessanti in materia di eco design?

Sicuramente in questo momento si sta sperimentando molto con materiali riciclati e riciclabili, con le bioplastiche e tutte le biocomponenti.

Questo trend è in un certo senso più facile di altri, perché poi si traduce in una immediatezza nel prodotto finale che è subito rilevata anche dai consumatori al momento della scelta e dell’acquisto. Può essere invece più complesso concentrarsi sui processi produttivi, quindi sull’efficienza energetica e sulla gestione del fine vita, ma anche in questo senso si sta facendo molta ricerca. Un altro tema senz’altro attuale è in un certo senso più sociale e culturale: si sta iniziando a lavorare sulla sensibilità dei consumatori e sulla formazione dei progettisti alla sostenibilità.

In più, stanno nascendo delle piattaforme aperte tra mondo della ricerca, della formazione e della produzione, per cercare soluzioni nuove, più condivise.

In particolare, quali buone pratiche consiglia a chi opera nel settore tessile? Investire sulla sostenibilità è una scelta strategica?

Credo che oggi questa non sia più solamente una scelta strategica, ma una scelta necessaria, perché il tessile è una delle filiere che inquina ed emette di più a livello globale. Servono quindi investimenti in produzioni che hanno un minore impatto: penso ad esempio alla recente riscoperta del lino - che consuma molta acqua rispetto al cotone, proprio per il tipo di pianta e di coltivazione - oppure alle fibre sintetiche riciclate, o ancora ai tanti efficientamenti che possono essere messi in atto a livello energetico. Naturalmente anche a livello di comunicazione questo tipo di cambiamenti ripaga, perché il consumatore è diventato più attento, quindi in questo senso si può parlare veramente di una scelta di tipo strategico.

Come riconoscere il greenwashing nel campo del design?

Non è facile capire quando ci si trova di fronte a del greenwashing in questo settore, ma si può fare. Innanzitutto bisogna guardare alle certificazioni, che attestano l’utilizzo di alcuni materiali e processi. Un altro elemento importante è la tracciabilità dei materiali stessi, quindi la trasparenza garantita dalle aziende per quanto riguarda il modo in cui si procurano le materie prime. Fondamentale anche dare un’occhiata al report di sostenibilità, che oggi tendenzialmente viene redatto e pubblicato dalle aziende attive nel campo del design, perché in questo documento si possono trovare alcune prove concrete dell’impegno di un’azienda.

In genere, quando si parla in modo indefinito di “ecologico” e “verde” - senza citare nulla di più specifico - ci si può trovare di fronte ad una pura operazione di marketing. Capita ad esempio che a conti fatti l’impresa utilizzi solamente una piccola percentuale di materiale riciclato in un prodotto su cento, ma concentri su questo la sua comunicazione.

Una creazione o un suo progetto sostenibile al quale è particolarmente affezionata?

Voglio citarne uno che ho sviluppato come sperimentazione in studio ormai diversi anni fa, e che poi si è evoluto negli anni. Si chiama Cook, che utilizza gli scarti della lavorazione del plexiglass per costruire degli oggetti decorativi, come vasi e piccole sculture, tutte lavorate a mano. È stato uno dei primi progetti in cui è stato affrontato questo tema dei “resti” riutilizzati in senso artistico. Quest’anno verrà riproposto anche al Como Lake Design Festival di settembre, a Villa del Grumello.

Un consiglio per chi sta studiando: come si diventa architetti o designer specializzati in sostenibilità?

Oggi il tema è più diffuso e viene trattato anche nelle università: chi studia architettura ad esempio riceve dei supporti per imparare a lavorare sul riuso degli spazi - limitando quindi il consumo di suolo - o a costruire edifici energeticamente più sostenibili, mentre chi studia design viene formato al design disassemblabile. Esistono però anche degli indirizzi specifici o dei professori appassionati che possono fornire competenze verticali.

Io per esempio mi sono laureata con Ezio Manzini che è stato uno dei primi paladini del tema della sostenibilità, prima a livello di prodotto e di processo e poi anche a livello sociale. Tuttora al Politecnico di Milano e in molte altre università si trovano gruppi di lavoro specializzati in cui affinare le proprie capacità, sia tecniche sia di visione.

© RIPRODUZIONE RISERVATA