La città si adatta al clima. «Possiamo ancora farcela, ma solo in una logica vegetale»

L’intervista Elena Granata è docente di Urbanistica al Politecnico di Milano: «Mettiamoci “alla scuola della natura” per adattarci al cambiamento»

Una “logica vegetale” per progettare spazi più vivibili e in grado di adattarsi al rialzo delle temperature. È la ricetta di Elena Granata, docente di urbanistica al Politecnico di Milano che immagina così la città del futuro.

Si parla sempre di più di Nature Based Solution: cosa sono e perché non potremo farne a meno?

Negli ultimi anni abbiamo capito che alla natura e alla sua forza dobbiamo rispondere con la natura. Adattare i sistemi urbani al rischio, creare zone cuscinetto, contrastare le isole di calore nelle città si può fare solo se adottiamo una “logica vegetale” (è questo lo spirito delle cosiddette nature-based solution): alla forza della natura si può rispondere solo con la natura. Nell’immaginario collettivo natura e paesaggio hanno soprattutto un risvolto estetico, bellezze da ammirare aprendo le finestre di casa. Ma qualcosa sta cambiando. Alberi, verde pensile, aiuole, parchi, stagni o laghi, ma anche strade sterrate, sabbia e altre superfici permeabili in grado di assorbire velocemente l’acqua e rallentare il deflusso superficiale, assolvono certamente ad una funzione ecosistemica e aiutano a contrastare gli effetti della crisi climatica sulle città ma al contempo possono alimentare una nuova idea di bellezza, di salute, di benessere urbano.

Nel percorso di mitigazione ed adattamento al cambiamento climatico, come possono le amministrazioni contribuire a ribaltare l’atteggiamento “Nimby, not in my backyard” da parte dei cittadini?

Per metterci in sintonia con la natura e per ricomporre la frattura tra natura e città dobbiamo metterci seriamente “alla scuola della natura” per comprendere come possiamo adattarci al cambiamento, resistere, reagire, persino trasformare la crisi climatica in un’occasione concreta per migliorare i nostri ambienti di vita. La crisi ci sfida nei luoghi dove le persone vivono, ci chiede di reintrodurre alberi e suoli liberi dove li abbiamo persi, di provare a ripensare la struttura stessa delle città. E per fare questo è fondamentale coinvolgere le persone, ribaltando la logica Nimby in Yimbi (Yes in my backyard); quello che ciascuno può fare nel suo giardino è importante: piantare alberi, togliere asfalto, produrre energia pulita, ridurre i consumi. L’adattamento alla crisi climatica richiede un grande sforzo corale che coinvolga tutti i cittadini.

Quale può essere il contributo di imprese e attività commerciali nell’evoluzione delle città verso modelli verdi?

Le imprese e più in generale gli attori economici sono chiamati a ripensare i propri sistemi produttivi, gli impatti delle loro attività sui territori, le modalità di produzione e consumo energetico, i propri modelli di crescita e di sviluppo. La transizione verso modelli produttivi più responsabili non può essere solo considerata un costo aggiuntivo e un freno rispetto al profitto, si tratta di una grande opportunità di innovazione e di cambiamento, che spinge le aziende a nuove collaborazioni orizzontali, con la società civile e con il territorio. L’esperienza delle comunità energetiche vede già il coinvolgimento di aziende locali con ruolo di attivatore e produttore di energia per la comunità, così come l’impegno nel campo della riforestazione.

Crede che la nuova Nature Restoration Law europea, appena entrata in vigore, potrà dare un input positivo?

Sì, la Nature Restoration Law - uno dei pilastri portanti del Green Deal - contiene un significativo passaggio culturale dalla tutela degli ambienti naturali europei di valore naturalistico ad un impegno di “rigenerazione” verso gli ecosistemi più degradati. Uno degli obiettivi principali è quello di ripristinare almeno il 20% degli habitat degradati entro il 2030, per arrivare al 90% nel 2050. Non possiamo più accontentarci di tutelare la bellezza della natura dove si è conservata meglio (e il lago di Como è un esempio straordinario), dobbiamo pensare di intervenire sulle aree agricole degradate, nei contesti montani, nelle aree urbane che hanno perso biodiversità a vantaggio di cemento, asfalto e costruzioni.

L’ultimo suo libro, uscito nel 2023, si intitola “Il senso delle donne per la città”. Rendere le città più sostenibili può farle diventare anche più inclusive ed accessibili?

Non c’è un automatismo. Ci sono città sostenibili e molto attente alla qualità ambientale che diventano esclusive e riservate a gruppi sociali più fortunati e benestanti. Mentre se rovesciamo la questione è difficile che città inclusive, attente alle minoranze, capaci di accogliere il pensiero delle donne e accessibili anche alle persone fragili non siano anche attente alla dimensione naturale e ambientale. Miglioramento della qualità ambientale e benessere delle persone oggi non possono più essere disgiunte; abbiamo capito che la nostra salute, il benessere psichico, la integrità dei nostri luoghi di vita (pensiamo alle alluvioni, al rischio idrogeologico, al riscaldamento delle città) dipendono dalla “salute” dei nostri territori. Nel mio libro racconto il cambiamento possibile in questa direzione partendo dall’esperienza, dalle competenze e dalla vita delle donne.

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