Imprese e Lavoro / Como città
Lunedì 04 Dicembre 2023
L’intervista a Marco Bentivogli: «Un potere senza ricambio. Così lo sviluppo è frenato»
L’ex segretario della Fim Marco Bentivogli nel libro “Licenziate i padroni” scrive di gerontocrazia e mediocrazia. «Viviamo una fase di cambiamento epocale, ma troppo spesso la nostra classe dirigente si dimostra in ritardo»
Licenziate i padroni. Come i capi hanno rovinato il lavoro” è il titolo, evidentemente provocatorio, del nuovo libro di Marco Bentivogli, edito da Rizzoli. Un testo che prende le mosse dalla critica non alla classe imprenditoriale ma al sistema di potere che, secondo Bentivogli, blocca il nostro paese o comunque ne rallenta fortemente lo sviluppo.
Ex leader dei metalmeccanici della Cisl, dal 2014 al 2020, protagonista di numerose rilevanti vertenze industriali nazionali, Marco Bentivogli, oggi coordinatore dell’associazione civica Base Italia, commentatore ed editorialista, si è successivamente occupato di intelligenza artificiale, dopo aver dato il proprio contributo alla realizzazione del piano nazionale “Industria 4.0” promosso dal governo di Matteo Renzi.
Bentivogli, cosa intende dire quando invita a licenziare i padroni. Il suo è un libro contro le imprese?
Assolutamente no, la mia è una riflessione sul potere e soprattutto sugli appuntamenti mancati dal potere. Stiamo attraversando una fase di cambiamento epocale, segnata dalle transizioni digitale, ambientale e demografica e troppo spesso la nostra classe dirigente si dimostra in ritardo. Il mio libro non è certo contro gli imprenditori, anche perché in un’azienda può esserci un capo reparto che si comporta da padrone a differenza di quanto fa il proprietario o l’amministratore delegato. La mia quindi è una critica ad una certa concezione del potere.
Quali sono gli appuntamenti mancati dal potere?
Sono quattro i punti chiave su cui mi concentro nel testo. In primo luogo, è ancora troppo diffuso il paradigma aziendale del comando e controllo: si tratta di un sistema che ha un’origine militare, fortemente maschile, e che forse aveva senso nell’epoca fordista. Ma oggi l’aspetto della ripetitività del lavoro è stato eroso dalle macchine, mentre cresce sempre più l’importanza del contributo umano. In questo contesto, il controllo non solo non ha senso, ma soffoca sia il benessere della persona sia la stessa produttività. Dove prevale il contributo umano, la logica del controllo è devastante. Il secondo aspetto chiave è l’avvento di quella che il sociologo e filosofo canadese Alain Denault chiama mediocrazia: abbassandosi il livello del confronto, facilmente i mediocri si coalizzano tra loro e raggiungono posizioni rilevanti, più di quanto sia accaduto in altre epoche. Del resto, stiamo demonizzando il valore dell’impegno, della fatica, dello studio, e buttiamo all’aria il valore stesso della persona in una situazione di mercato truccata in cui vengono spesso promossi amici, parenti e persone fedeli. Il terzo ambito in cui rischiamo di arrivare tardi o comunque di sbagliare approccio è quello del digitale: una sfida ed un’opportunità importantissima ma che rischia di entrare nella vita delle persone in modo invasivo; gli strumenti che oggi abbiamo a disposizione possono rendere il lavoro un’esperienza negativa se usati male da un capo mediocre ed ansioso. Infine, mi concentro sul narcisismo di chi comanda: nel passato, dopo i sessant’anni questo fenomeno si esauriva progressivamente. Oggi invece nei gruppi dirigenti ci sono spesso campioni della gerontocrazia che non vogliono mollare: guai a chi si azzarda a consigliare un’uscita di scena.
E quindi come si licenziano questi “padroni”?
Il licenziamento è già in atto: penso al grande turnover delle dimissioni volontarie; ci sono coloro che si licenziano perché hanno esperienza e capacità e possono ricollocarsi, mentre altri non hanno il coraggio ma fanno il minimo indispensabile per non essere licenziati. In entrambi i casi, questi lavoratori licenziano i padroni perché non hanno un rapporto di fiducia. Dopo l’uscita del libro, alcuni amici imprenditori si sono arrabbiati con me, ma io rispondo con una domanda: tu ti senti il padrone della tua azienda oppure hai una visione differente? Dobbiamo abbandonare concetti ormai preistorici. Del resto, nel mio libro parto da un’analisi di Gallup, società molto seria, che classifica gli italiani tra i più infelici e meno coinvolti al lavoro. Se questa è la situazione, è solo colpa dei giovani che non hanno voglia di lavorare o qualche responsabilità ricade anche sui capi? Ci sono aziende che, avendo compreso il cambiamento, stanno ottenendo risultati importanti in termini di benessere di chi lavora. Chi innova veramente è aperto ai contributi ed alla valorizzazione di chi lavora con lui. Prendiamo lo smart working: c’è chi ha capito che si tratta di una dimensione nuova del lavoro, che può riguardare tutti, compreso l’amministratore delegato, e chi pensa ancora che sia lavorare da casa.
Il recente sciopero proclamato da Cgil e Uil ha generato numerose polemiche ed anche uno scontro con una parte del governo. Cosa ne pensa?
Se consideriamo gli ultimi diciotto anni in Italia, nelle aziende private con più di cinquecento dipendenti il conflitto e lo sciopero si sono praticamente azzerati, mentre spesso ci sono astensioni dal lavoro nei servizi pubblici e nel trasporto, a volte proclamate da sigle non rappresentative e su piattaforme che non hanno correlazione con i reali obiettivi della mobilitazione. In questo modo si degrada l’enorme valore dello sciopero; ma, per lo stesso motivo, ha fatto male il ministro Matteo Salvini ad irridere questo strumento. La situazione in Italia è diversificata: nell’industria manifatturiera c’è un buon livello di relazioni industriali, ma il terziario è invece un disastro, con gran parte dei contratti non rinnovati. Se gli stipendi restano fermi in un momento in cui l’inflazione galoppa, le famiglie entrano velocemente in una situazione di difficoltà oggettiva.
Lei è favorevole all’introduzione del salario minimo per legge?
Se mi avesse fatto la stessa domanda vent’anni fa, avrei risposto che la contrattazione copriva gran parte del lavoro dipendente ed era quindi sufficiente. Oggi invece, come dicevo prima, i contratti collettivi spesso non vengono rinnovati, c’è un lavoro dipendente mascherato da autonomo, e quindi è importante costruire una soglia minima di garanzia. Ricordiamoci che nove euro lordi all’ora significano 6,5 netti: credo che sotto un certo limite non si possa andare. Ho partecipato recentemente alla presentazione del rapporto sulla povertà realizzato dalla Caritas ed invito anche il sindacato a guardare la realtà: un quarto delle persone che cercano aiuto sono lavoratori; questo significa che si sta diffondendo sempre più il lavoro povero.
Guardando al futuro, nel suo libro c’è spazio anche per una visione improntata all’ottimismo?
Partendo dalla realtà dobbiamo dire che le politiche del lavoro in Italia hanno aumentato la polarizzazione e creato un mercato diseguale. Il mio libro vuole essere un contributo per una discussione che porti alla definizione di percorsi per un lavoro sempre più dignitoso, che permetta di esprimere tutte le potenzialità della persona. Per fare questo, occorre ricostruire i gruppi dirigenti: l’Italia ne ha davvero bisogno.
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