«Manifattura made in italy. Ecco perché ce la faremo»

Carlo Maria Capè, comasco di adozione, è stato fino allo scorso aprile al vertice di Bip, società multinazionale di consulenza. «Fattori di fiducia rispetto alla crisi: il posizionamento sul lusso, la quota export e la propensione all’innovazione»

Comasco d’adozione, Carlo Maria Capè è azionista di Bip, il Gruppo che ha guidato come Ceo fino all’aprile di quest’anno. Bip, la società di consulenza manageriale che ha contribuito a fondare nei primi anni Duemila, è oggi in rapida crescita e conta oltre 5.000 dipendenti in Europa e nel mondo.

A partire dalla sua esperienza e dalla situazione delle imprese comasche, su cosa si basa la capacità del Made in Italy di resistere alle crisi, vista la trasformazione dei mercati dal 2020 a oggi?

Il tessuto economico di Como è esemplificativo del Made in Italy a livello nazionale, nel senso che i suoi settori manifatturieri più rappresentativi, tessile e legno, si rivolgono alla fascia alta del mercato. Molte delle imprese del territorio esportano più della metà di quello che producono e servono i grandi brand e i clienti del segmento lusso. Nei periodi di crisi, questo tipo di aziende, pur accusando una flessione, riesce a recuperare rapidamente i momenti di difficoltà grazie a qualità e innovazione, continuando a crescere anche nei momenti complicati.

Quindi, anche se c’è una flessione oggi nel mondo del tessile, considerando che il tessile include moda, abbigliamento, design per interni, macchine tessili, sui mercati esteri siamo comunque visti come italiani e, in virtù della qualità del Made in Italy, orientati alla fascia più alto del mercato. Sono convinto che le nostre imprese recuperano anche quando c’è un calo del mercato, perché i mercati del lusso sono disposti a continuare a sostenere i costi della qualità desiderata. Questo permette alle aziende di mantenere il fatturato o addirittura di crescere nonostante una riduzione dei volumi.

Perché? Quali sono i punti di forza specifici di questo tipo di aziende?

Ci sono tre fattori principali: il primo è il mercato dei beni di lusso che è più resiliente. Secondo, l’alta percentuale di esportazioni, circa il 50%, che permette di compensare le flessioni nei mercati locali. Terzo, il marchio Made in Italy ha un premium price che i consumatori sono disposti a pagare anche durante le crisi. In ogni situazione, il Made in Italy continua a essere valorizzato.

Come vede il futuro del Made in Italy in un mondo sempre più globalizzato e tecnologico?

Il futuro del Made in Italy dipende dalla capacità di innovarsi e di adattarsi ai cambiamenti del mercato globale. Le competenze tradizionali devono essere integrate con nuove tecnologie e processi innovativi. Inoltre, la collaborazione tra imprese e la formazione continua saranno chiavi per mantenere alto il livello qualitativo che caratterizza il nostro Paese. Sono fiducioso che, con le giuste strategie, il Made in Italy continuerà a essere un simbolo di eccellenza nel mondo. Vorrei sottolineare l’importanza della formazione continua e dell’adozione di una visione a lungo termine. La digitalizzazione non è solo un investimento in tecnologia, ma un cambio di mentalità e di approccio al mercato. Le aziende devono essere pronte a rivoluzionare i loro processi, formare il loro personale e collaborare con esperti esterni per riuscire a competere in un mercato globale sempre più complesso e dinamico.

Industria 5.0: cosa è bene aspettarsi e come può agire da volano per le nostre imprese?

Ho lavorato con il Ministero e ricordo che il sistema di incentivi Industria 4.0 privilegiava l’acquisto di macchinari, non la consulenza. Uno dei limiti degli incentivi è la formazione, che è prevista solo in minima parte (circa il 10%). La digitalizzazione, per esempio nel settore tessile manifatturiero, implica la raccolta e l’analisi dei dati aziendali per migliorare qualità e servizi. La trasformazione digitale richiede una rivoluzione nei processi produttivi e competenze specifiche, come quelle dei data scientist e degli ingegneri informatici. Attualmente, queste competenze non sono finanziate. Se ci fossero incentivi, le aziende assumerebbero tali figure, ma spesso mancano la sensibilità e la capacità di investimento necessarie. Il consulente esterno quindi ha il compito di aiutare a rivoluzionare i processi produttivi, ridurre i costi e migliorare la qualità grazie all’introduzione di nuove tecnologie.

Il Gruppo Bip si distingue per la consulenza digitale alle imprese: come si presenta il panorama italiano, in particolare quello comasco? Quali sono i bisogni più rilevanti e le difficoltà?

Le piccole e medie imprese spesso limitano l’innovazione agli investimenti hardware, senza considerare l’importanza della consulenza e della formazione continua. Questa limitazione si riflette anche negli incentivi governativi, che storicamente hanno privilegiato l’acquisto di macchinari rispetto alla formazione delle risorse umane e all’ottimizzazione dei processi. Molti imprenditori non comprendono che la vera digitalizzazione richiede una trasformazione completa del sistema operativo aziendale, che va oltre l’acquisto di nuove tecnologie.

Qual è il vantaggio di avvalersi di risorse esterne per colmare alcune competenze e quali sono le aree dove il ricorso alla consulenza è più critico?

È un aspetto fondamentale perché le piccole imprese spesso non dispongono delle risorse interne necessarie per affrontare una trasformazione digitale completa. Un consulente esterno può fornire la competenza necessaria per rivoluzionare il processo produttivo, implementare nuovi sistemi di raccolta e analisi dei dati, e introdurre l’intelligenza artificiale per migliorare la qualità e ridurre i costi. Questo tipo di consulenza è cruciale per passare da un semplice miglioramento incrementale a un vero e proprio salto di qualità.

Un problema che riguarda le pmi e non le grandi società: in quale misura la piccola dimensione delle imprese italiane costituisce un limite?

Un grosso ostacolo è l’autonomia e la poca volontà di fare rete tra imprese. Un aspetto che riguarda tutta l’imprenditoria italiana è l’autonomia e la poca volontà di fare rete. Le nostre micro e piccole imprese sono molto innovative ma hanno problemi di produttività, crescita e investimenti. L’innovazione spesso viene introdotta e spinta dall’imprenditore e dai dipendenti, ma le aziende rimangono piccole per mancanza di coordinamento e sinergia. Questa frammentazione limita la competitività. Aggregarsi permetterebbe di condividere competenze, accedere a nuovi mercati e ottimizzare i processi, ma molti imprenditori sono riluttanti a cedere il controllo delle loro aziende, anche quando questo significa una maggiore possibilità di crescita.

Quali sono le possibili soluzioni?

Per esempio, la nostra società ha deciso di rinunciare alla maggioranza delle proprie quote per affidarle a un fondo di private equity, cosa che ci ha permesso di aggregarci e servire meglio i clienti, anche a livello internazionale. Questo tipo di collaborazione può portare a grandi potenzialità di investimento, sia nell’e-commerce che nella promozione e innovazione del prodotto. Le grandi aziende tendono sempre ad avere una maggiore crescita e produttività rispetto alle piccole, come emerge anche dai report di Confindustria.

È quindi importante che le aziende parlino tra loro e creino reti. L’imprenditore italiano è spesso molto orgoglioso della propria azienda e riluttante a lasciarla nelle mani di qualcun altro. Tuttavia, come dimostra la mia esperienza, aggregarsi può portare a notevoli vantaggi e soddisfazioni.

Ma i piccoli proprietari tendono a voler mantenere il 100% della proprietà, anche a rischio di chiusura. Questo fenomeno è particolarmente esteso, tanto che molte piccole aziende chiudono quando il fondatore non vede altre soluzioni alla sua successione.

La riluttanza a cedere il controllo è un problema tipico e socio-culturale nelle pmi. È una sfida cambiare mentalità, ma le opportunità sono immense per chi decide di fare questo passo.

In conclusione, bisogna riflettere sulla dimensione delle aziende e sulla possibilità di creare sinergie per crescere e essere più competitivi nel mercato globale. Inoltre sinergie positive possono intervenire a proteggere alcuni anelli delle filiere produttive che rischiano di perdersi.

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