Le aziende nel caos globale. «È l’ora di avere un piano b»

Manlio Graziano, docente a “SciencePo” di Parigi, esamina lo scenario economico alla luce dei disequilibri in atto. «Alcuni grandi attori del mercato stanno sparendo o trasformandosi. Basta vedere il settore auto della Germania»

Gli scenari geopolitici hanno sempre avuto riflessi sull’economia. Più che mai in un contesto caotico come quello attuale, post globalizzazione, in cui la possibile guerra dei dazi innescata dall’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, con l’escalation militare in Medio Oriente e Ucraina, rischia di determinare, assieme alla bassa crescita, all’elevato debito in alcuni Paesi e all’esito delle elezioni non favorevoli alla UE in alcuni Paesi come la Francia, una nuova crisi nel cuore dell’area euro.

«La tendenza al protezionismo è da tempo in atto al di là di Trump»

L’allarme è stato lanciato nei giorni scorsi dalla Bce, che mette in guardia anche il settore privato - banche e imprese - e gli investitori sui rischi di correzioni improvvise in Borsa. Lo dice il “Financial Stability Review”, un aggiornamento che enumera ogni sei mesi i rischi per la stabilità finanziaria.

Ma questa volta nel documento, di per sé costituzionalmente orientato alle criticità, emerge di continuo il timore di un’escalation commerciale targata Stati Uniti per un’economia europea che determina oltre il 50% di Pil con l’export.

«I calcoli fatti in passato devono essere rifatti»

Davvero siamo “Al margine del caos”, come suggeriva la due giorni di TEDxLakeComo, svoltasi a Villa Erba di Cernobbio il 9 e 10 novembre. Tra i partecipanti c’era anche il professor Manlio Graziano, eminenza grigia di “Sciences Po” e dell’Université Sorbonne a Parigi.

«È arrivato il momento, per le imprese, di preparare un “piano B”» riconosce il politologo, autore del recente “Disordine mondiale. Perché viviamo in un’epoca di crescente caos” (Mondadori).

Professor Graziano, oggi il tema del disordine globale è prevalente. In parallelo, si afferma una geopolitica delle “leadership” (da Trump a Xi Jinping, a Putin) che vuole “mettere ordine”.

Tutti quelli che dicono che metteranno ordine sanno loro stessi che non è vero, perché rimettere ordine in questo caos globale oggi è davvero impossibile. La vera questione reale, semmai è la gestione del caos. Il disordine non è un’idea, non è un’ipotesi, è una realtà che vediamo ogni giorno complicarsi sempre di più. Però c’è una distrazione profonda da parte di quelli che dovrebbero gestire lo scenario: ognuno si occupa di tirare la coperta dalla propria parte. E questo non può che aggravare il disordine. Quindi, quando dico che siamo in una situazione in cui la confusione mondiale non fa altro che accrescersi, mi riferisco precisamente a questo: anziché trovare delle soluzioni, prevale una sorta di allentamento dei legami internazionali che hanno permesso, nei 40 anni della globalizzazione, di risolvere una serie di enormi problemi dell’umanità. Oggi si va nella direzione opposta. Così che le criticità presenti non possono che aggravarsi.

Quali sono stati i due episodi degli ultimi 20 anni che hanno accentuato il disordine globale?

Sicuramente il più importante è la crisi del 2008, perché quell’episodio ha avuto svariate conseguenze, la più importante è che le popolazioni dei Paesi più avanzati, che si sono industrializzati per primi, che hanno governato il mondo negli ultimi secoli, si sono resi conto per la prima volta e in maniera chiara, che per loro il futuro sarebbe stato peggiore del presente e, soprattutto, del passato. Se ne sono accorti durante una crisi che non è stata la causa, ma piuttosto il detonatore del caos mondiale, perché questo è un processo in corso da decenni.

La spiegazione, a ben vedere, è abbastanza semplice: ci sono delle potenze emergenti che si stanno prendendo degli spazi che una volta erano prerogativa dei vecchi potentati dominanti. Potenze che hanno potuto costruirsi dei privilegi grazie al loro dominio del mondo. Ora questa “signoria” non è contestata, però alcuni “pezzi” sono stati sottratti e questo significa perdere fette di privilegi. Le popolazioni se ne sono rese conto. Se traduciamo in termini elettorali, che è molto riduttivo, però è indicativo – un termometro – i risultati di questo disorientamento li vediamo. Ci sono grandi successi dei populisti, dappertutto, nei vecchi Paesi industrializzati, che è manifesto.

Oggi tutti cercano spiegazioni nei social media. La realtà appare molto più profonda, più complessa, appunto quella di uno “shift of power”, uno slittamento di potere tra le grandi potenze che va a sfavore delle vecchie potenze. Le popolazioni questo non l’accettano e cercano dei “capri espiatori”: i populisti glieli danno.

Dobbiamo aspettarci la nascita improvvisa di fenomeni emergenti, non controllabili, in questa fase perturbativa?

Effettivamente è una possibilità concreta, sempre nella prosecuzione di questa tendenza. Meno le grandi potenze, in primis gli Stati Uniti, sono in grado di controllare la politica internazionale, più tutti gli altri si sentono in grado di prendersi gli spazi occupati prima dagli Usa.

Cosa cambierà nel mondo con il ritorno alla presidenza di Donald Trump negli Stati Uniti?

La tendenza al disordine va nella stessa direzione, che ci sia Trump o qualcun altro. È chiaro che la sua presidenza non può che accelerare febbrilmente questo ordine di cose. Perché l’orientamento degli Stati Uniti a chiudersi dal punto di vista economico con Trump accelererà e renderà ancora più veloce il disordine globale. Meno gli Usa sono capaci di essere parte regolatrice del mondo, più dovremo aspettarci l’accrescersi del caos.

L’Europa tirerà fuori le unghie? Riuscirà ad assumere quel ruolo di potenza globale dismesso dagli Usa che oggi è vacante proprio alle nostre latitudini?

Non lo farà, perché ciascuno cercherà di salvare se stesso, e si tratta di un meccanismo già in funzione. In Europa c’è una marea di partiti al governo populisti. Prenderanno spunto dalla vittoria di Trump per accostarsi ancora di più agli Stati Uniti e separarsi dall’Europa. Questo può essere considerato da vari punti di vista. Uno è contrattare con Bruxelles per avere più margini, anche se non credo si arrivi a una separazione formale, benché ci si possa aspettare di tutto.

Le imprese hanno bisogno di stabilità, da sempre, per fare business. Questo quadro di disordine, come cambia il paradigma economico e il modello dei mercati?

Cambia enormemente perché, se la tendenza al protezionismo, che ormai è un dato di fatto, si accresce come sembra verosimile, allora tutti i calcoli sono da rifare. In prima istanza, coloro che lavorano sull’internazionale, perché hanno nell’export la fetta più rilevante del proprio business, devono cominciare ad avere, quanto meno, dei “piani B”: credo che ci stiano ragionando tutti, per la verità. Il fatto che le barriere stiano alzandosi, e che si alzeranno sempre di più con Donald Trump, allora tutta una serie di calcoli fatti in passato devono essere rifatti. Tutte le imprese hanno i loro studi che fanno i calcoli dei rischi sugli investimenti. Chi lavora di più per il mercato interno sembrerebbe essere meno direttamente colpito dalla situazione globale.

E chi resterà a galla, secondo lei, alla fine?

Questo è interessante da capire… Negli ultimi anni abbiamo visto che ci sono le trasformazioni strutturali, colossali: alcuni grandi attori dell’economia mondiale stanno sparendo o trasformandosi. Basta vedere il settore auto della Germania, ma tutto il comparto in generale. Lì gioca anche l’elettrificazione (Il mancato decollo della mobilità elettrica nel Vecchio Continente ha portato la Ford, mercoledì scorso, ad annunciare il taglio di 4.000 posti di lavoro entro il 2027. In Germania, il sindacato dei metalmeccanici IG Metall ed il consiglio di fabbrica di Volkswagen si dicono pronti ad accettare una riduzione degli stipendi per tagliare i costi senza ricorrere alla chiusura degli impianti e ai licenziamenti, ndr). Sono mutamenti a carattere epocale che colpiscono in maniera differenziata i vari settori, ma che li toccheranno tutti.

Perché anche quelli che producono per il mercato interno, dovranno adeguarsi a un contesto sempre più ristretto. Più il protezionismo aumenta, più i costi delle merci crescono e questo si riverbera su tutta la filiera, dalla produzione, ai mercati.

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