Pmi, tassazione punitiva «Colossi del web favoriti: sistema da riequilibrare»

Il caso In Italia il 50% dei prelievi contro il 36% per multinazionali del digitale Timpano, Cattolica: «Maggior coordinamento tra Paesi non solo europei»

Una tax rate al 50% per le pmi e al 36% per le multinazionali del web è sintomo di un’imposizione fiscale che in Italia punisce le piccole imprese, che totalizzano 25 miliardi di pagamento fiscale e aiuta i giganti delle multinazionali estere, che per le 25 del web presenti in Italia si fermano a 200 milioni. Ora si conta sugli effetti dell’entrata in vigore, da quest’anno anche in Italia, della Global Minimum Tax.

«La scommessa è di tassare di più i mega gruppi, senza farli scappare»

Ne parliamo con Francesco Timpano, professore ordinario di Economia Politica all’Università Cattolica di Piacenza e direttore del Cespem-Centro Studi di Politica Economica e Monetaria “Mario Arcelli”.

«Non è facile applicare il concetto di localizzazione fisica al digitale»

Professore, le multinazionali continueranno a pagare meno pur agendo formalmente nelle regole?

Le multinazionali digitali riescono ad eludere parte della tassazione portando fuori dall’Italia parte del loro valore aggiunto. I dati non sorprendono. Il vero tema è guardare a quanta pressione fiscale in termini di rapporto fra imposte e fatturato sono sottoposte le imprese, oltre che a determinare quanto e come far pagare loro le imposte in proporzione al fatturato che realizzano nel Paese.

Guardare solo all’aspetto quantitativo è meno indicativo per comprendere la dinamica della situazione. Quando le tax rate sono così diverse è evidente che i piccoli siano penalizzati: non abbiamo formalmente un trattamento regressivo in cui le imposte sono più basse per i fatturati più elevati, ma di fatto le grandi imprese pagano di meno perché hanno un’organizzazione e studi legali e fiscali che riescono a ottimizzare la tassazione. Il tax planning non è un crimine se fatto ovviamente secondo le leggi.

Per la piccola impresa, per quanto ben assistita da commercialisti e fiscalisti, non riesce ad adattare l’attività all’obiettivo di pagare meno tasse, tanto che spesso per farlo in Italia si evade. Il piccolo imprenditore si preoccupa di produrre e vendere, poi quello che arriva in tasse lo si vede a posteriori.

Cosa serve per equilibrare la situazione?

L’attenzione va concentrata sul fatto che per ovviare al problema è necessario un maggior coordinamento fra i Paesi non solo dell’UE, che pure non sono molto coordinati, ma fra i Paesi del mondo. Qualsiasi cosa che facciamo da soli, come Paese, rischia di danneggiare l’Italia. Se, ad esempio promuovessimo una campagna molto aggressiva il rischio è che nel medio-lungo periodo, e pur essendo l’Italia un Paese importante e con reddito pro-capite medio e consumi significativi, l’incentivo per i colossi del web a operare in Italia in modo pieno potrebbe ridursi.

Una campagna aggressiva avrebbe comunque un suo senso?

Sì, la scommessa sarebbe quella di tassarle di più per riequilibrare il rapporto con le nostre pmi contando sul fatto che tanto le multinazionali non se ne andrebbero, non ridurrebbero la loro operatività in Italia e non cercherebbero altri escamotage per eludere il fisco italiano.

È una scommessa che si potrebbe fare, ma la cosa più sensata sarebbe intervenire con alcuni accordi internazionali. Qualcosa già c’è, come la Global Minimum Tax introdotta da una serie di Paesi ma non da tutti, e ciò non la rende di semplice applicazione. Alcuni Paesi in cui hanno sede grandi multinazionali digitali, come Stati Uniti e Cile, si sono sottratti alla Gmt.

Qual è lo strumento più giusto per una maggiore equità fiscale?

Gli strumenti di coordinamento delle politiche economiche sono gli strumenti ideali, in primo luogo all’interno dell’Ue dove sarebbe bene che non ci facessimo competizione fiscale. Cosa, questa, difficilissima, ma andare a un tavolo europeo a dire che dobbiamo ridurre la competizione fiscale interna e comportarci verso le grandi imprese del web in modo simile. Invece ci sono Paesi europei che se non sono paradisi fiscali poco ci manca. E se il coordinamento fosse mondiale sarebbe ancora meglio, com’è il caso della Gmt, con cui le imprese multinazionali pagano le tasse in base al fatturato o agli utili (a seconda dei casi) che realizzano nei Paesi in cui operano, senza portarli nei paradisi fiscali o nei Paesi d’origine che chiudono un occhio su fatturati realizzati all’estero. Inoltre, ovviamente un principio di giustizia vorrebbe che non ci fosse elusione delle tasse ma questo vale per chiunque, non solo per i giganti del web.

L’aliquota del 15% della Gmt resta tuttavia molto contenuta.

Sì, comunque vale il principio per cui il prelievo fiscale si distribuisce fra i Paesi in cui il soggetto opera. Il fatto di aver introdotto questo principio, che prima non c’era, è estremamente importante. In un clima mondiale come quello attuale il coordinamento delle politiche economiche rientra un po’ fra i sogni, abbiamo problemi più grandi legati alla geopolitica. La Global minimum tax è figlia di una stagione in cui c’era ragionevolezza tra le aree più potenti della terra, le tensioni attuali ricadono anche su questo. Ma sistemi di questo genere sono gli unici che permettono a un Paese di redistribuire in modo più omogeneo il carico fiscale senza rischiare di vedere ridursi l’operatività di questi soggetti. Le multinazionali del web riescono a far apparire, per struttura organizzativa, i propri profitti nei Paesi a più bassa tassazione. Ciò comporta che debbano darsi un’organizzazione che lo permetta, e classicamente le leggi tributarie internazionali cercano di perseguire con vari sistemi le multinazionali, ma oggi farlo è sempre più difficile per il fatto che buona parte di esse lavorano sul digitale e perciò il concetto di localizzazione fisica dell’azienda non è applicabile.

Una cosa è perseguire un’azienda che apre una fabbrica in Italia, per cui si può dire che stia lavorando nel nostro Paese, altro è perseguire un’azienda che vende in Italia ma opera da altri Paesi.

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