Condannato per l’incendio doloso: in fumo 432 ettari di terreni a Garzeno

Il caso Graziano Gobba di Dongo ritenuto colpevole del rogo del marzo 2019. Assolto il figlio

«Gan mia i proof» (non hanno le prove), diceva in dialetto la voce di uno dei due imputati in una intercettazione ambientale effettuata dai Carabinieri Forestali. «Gan mia i proof», ha provato a ripetere ieri l’avvocato Walter Gatti a conclusione dell’arringa, rivolto al giudice monocratico Valeria Costi e in un processo dove il dialetto l’ha fatta da protagonista, fino ad arrivare a sentire audio in aula e ad affidare ad un perito la traduzione dei contenuti delle intercettazioni più indecifrabili.

Ma per il Tribunale di Como, evidentemente, le prove c’erano perché nella mattinata di ieri è arrivata la condanna a 2 anni e 8 mesi per Walter Graziano Gobba, 66 anni di Dongo, accusato dal pm Giuseppe Rose di essere l’esecutore materiale di un incendio appiccato in più punti sull’Alpe Brenta di Garzeno nel pomeriggio del 25 marzo 2019. Ad andare in fumo 432 ettari di montagna, la gran parte destinati al pascolo ma con anche 104 ettari di bosco. Incendio che fu domato solo dopo quattro giorni di lavoro da parte dei vigili del fuoco. Fiamme che tra l’altro distrussero anche una cascina.

Assolto, nell’ambito dello stesso fascicolo, il figlio Omar Gobba, 43 anni, che era stato pure lui indagato ma che è riuscito a dimostrare di essere estraneo ai fatti, essendo al lavoro in Svizzera. Il pm e i forestali avevano portato sul banco del giudice un testimone che aveva visto un uomo accendere i focolai per poi scappare con una Fiat Panda scura, ma anche una serie di intercettazioni – tra cui la frase «non hanno le prove» - e infine anche il cellulare dell’imputato che agganciava una cella compatibile con il punto di fuga. Il movente sarebbe da ricercare nel tentativo di «ripulire i terreni» da erbacce dopo aver subito una decurtazione del contributo regionale quantificato sugli ettari pascolabili.

La difesa ha invece provato a controbattere che le frasi intercettate non erano indicative di nulla, che la Panda in uso era «rossa e non scura» e che anche le celle del telefono potevano al massimo avere una valenza indiziaria. Invece, per il giudice, le prove c’erano ed erano sufficienti per una condanna.

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