Edi Copes, la verità della mamma: «Quella notte in cui mio figlio fu ucciso ho visto bene»

Sorico La Procura indaga sulla morte del giovane avvenuta 42 anni fa. L’avvocato Meroni: «Intercettazioni telefoniche e interrogatori decisivi»

Ci crede ancora Mario Meroni, assicuratore di Erba, e ci spera ancora Letizia Caraccio, la madre di Edi Copes, il diciassettenne morto in circostanze misteriose 42 anni fa, trovato sfigurato in un fossato al margine della statale Regina lungo il rettilineo di Ponte del Passo.

Una morte, la sua, archiviata troppo in fretta come incidente: secondo la versione ufficiale quella sera, mentre tornava da Colico dopo aver lasciato la sua moto a un meccanico, il ragazzo sarebbe stato urtato da un camion e spinto nel fossato. Le indagini vennero riaperte una prima volta nel 2000, a 18 anni dai fatti, senza ancora alcun processo, e ora, su richiesta dell’avvocato Noelle Meroni, figlia dell’assicuratore che si è preso a cuore il caso, la Procura di Como ha deciso di riaprirle una seconda volta.

Il manubrio della Vespa

«Ci sono delle intercettazioni telefoniche di vent’anni fa che potrebbero mettere con le spalle al muro i colpevoli – afferma Meroni – ma la Procura sembra non volerne tener conto. Si potrebbe comunque interrogare una donna all’epoca legata a uno degli indagati, per capire come mai dice a lui determinate cose al telefono».

La morte di Edi Copes potrebbe forse essere collegata al furto di una Vespa il cui manubrio comparve, ad un certo punto, sulla Lambretta della vittima.

Quando il legittimo proprietario se ne accorse, con un amico costrinse con le cattive Edi a parlare e lui fece i nomi dei presunti ladruncoli; subì così percosse in più occasioni da costoro, rimanendo l’indiziato numero uno per il proprietario, che alla fine, assieme all’amico fidato, gliela fece pagare con gli interessi.

È questa la tesi sostenuta da Meroni e dalla famiglia della vittima, supportata da un episodio che mamma Letizia rivede ancora dinanzi agli occhi come se fosse avvenuto ieri: «La notte in cui mio figlio venne ucciso, attorno all’una, vidi un’auto fermarsi dinanzi a casa ed essendo in ansia per lui uscii subito nella speranza che qualcuno lo avesse accompagnato a casa – racconta la donna – . Quando il conducente mi vide, ripartì a forte velocità in direzione Gravedona, ma lo vidi bene in faccia».

La persona sotto casa

E quando nel 2000 vennero riaperte una prima volta le indagini, la madre di Edi riconobbe ancora la stessa persona, l’amico del proprietario della Vespa rubata, tra tante fotografie mostratele dalle forze dell’ordine.

«Sono troppe le lacune, troppi aspetti affrontati con superficialità, a partire da un processo per il furto della Vespa, con condanna di sei mesi per ciascuno dei due imputati, svoltosi senza alcun collegamento con la morte di un ragazzo minacciato e pestato perché in possesso del manubrio di quella stessa Vespa - osserva ancora Mario Meroni - . Certo, per condannare qualcuno occorrono prove precise, ma senza un processo la morte di Edi Copes rimarrà sempre impunita».

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