I poliziotti vogliono multarlo, l’ispettore chiama: «Lui è un amico». Assolto

Tremezzina Il pm chiede due anni, ma per il giudice il fatto non sussiste Si chiude senza condanne la vicenda del poliziotto sospeso dal lavoro

Tremezzina

Dire a un collega, ancorché di grado inferiore, mentre sta elevando una contravvenzione a un camionista quello «è un amico», lasciando quindi intendere - secondo l’accusa - che si potrebbe evitare di multarlo, non è reato. Lo aveva sentenziato la Cassazione lo scorso anno, annullando la sospensione cautelare dal servizio di un ispettore della polizia stradale, e lo ha confermato il giudice delle udienze preliminari di Como.

L’ispettore della stradale Roberto Casartelli, storica figura del comando di via Italia Libera, è stato assolto con formula piena, perché il fatto non sussiste, in udienza preliminare come richiesto dai suoi legali (avvocati Edoardo Pacia e Mosè Botta), e nonostante il pubblico ministero titolare del fascicolo (Antonia Pavan) avesse chiesto una condanna a due anni di carcere senza benefici della condizionale.

Il reato contestato al sottufficiale della polstrada era quello di induzione indebita a dare o promettere utilità. Secondo l’accusa Casartelli avrebbe approfittato del suo ruolo di coordinatore della sezione della stradale in servizio sulla Regina, per intervenire a favore di automobilisti e camionisti amici per evitare loro multe o provvedimenti. In realtà l’episodio contestato è uno solo e risale all’agosto 2022 quando, chiamato da un camionista fermato da una pattuglia, si era fatto passare il vice ispettore in servizio dicendogli: «È un mio amico». Secondo l’accusa quella telefonata sarebbe stata indebita in quanto, a parere della procura, sarebbe stata una sorta di raccomandazione a chiudere un occhio

Il gip di Como prima e il Tribunale del riesame di Milano poi avevano sospeso (e confermato la sospensione) dal lavoro l’ispettore il quale, al proprio comandante, aveva «confessato di aver esercitato una minima pressione sul collega» per evitare la multa all’amico.

A dire che quel comportamento non è reato era stata la Cassazione, che aveva accolto il ricorso dell’avvocato Pacia: con il reato di induzione indebita, ha argomentato la Suprema Corte, si è «cercato di riordinare una delle aree più controverse della disciplina in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, quale quella che si colloca al confine tra concussione e corruzione». E in quest’ottica «il delitto di induzione indebita è connotato, negativamente, dall’assenza di violenza-minaccia da parte» del pubblico ufficiale «e, in positivo, dalla esistenza di un vantaggio indebito» per il terzo che ha potuto avvantaggiarsi dell’intervento dell’amico. Ma, soprattutto, «il tentativo di induzione indebita a dare o promettere utilità presuppone che il funzionario pubblico, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, ponga potenzialmente il suo interlocutore in uno stato di soggezione». Ed è questo che sarebbe mancato nel caso di specie. Perché l’ispettore «si limitò a sostanzialmente a “raccomandare” invano il soggetto nei cui confronti si stava procedendo», e dunque «non una condotta induttiva, non uno stato di soggezione, non un rapporto non paritario, ma, semmai, una condotta del ricorrente volta a determinare, istigare, il pubblico ufficiale e violare i propri doveri al fine di favorire un terzo; una condotta non di induzione ma al più riconducibile al contributo morale finalizzato all’altrui illecito agire».

Conclusioni a cui, evidentemente, si è attenuto il giudice ieri: «Non possiamo che esprimere piena soddisfazione - il commento dell’avvocato Pacia - per questo esito in cui abbiamo sempre creduto fermamente sin dall’inizio, come dimostrato anche dalla scelta inusuale processualmente di affrontare la questione di “petto” sin dalla fase cautelare».

© RIPRODUZIONE RISERVATA