Il blitz contro la ’ndrangheta visto da vicino: «Fate attenzione ma siate rispettosi»

Reportage Abbiamo seguito la polizia durante gli arresti. A casa del presunto usuraio: contanti e cambiali ovunque

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La prima, è la raccomandazione che non ti aspetti: «Mi raccomando, siate rispettosi. Ed entrate nelle case degli indagati con il sorriso sulle labbra». La seconda, è più scontata: «Fate attenzione, però. Il contesto è tipicamente ’ndranghetista. E molti potrebbero essere armati».

Sulla porta con vetro satinato si legge, a caratteri cubitali, la scritta “Squadra Mobile”. Nel luogo dove nascono le indagini più delicate, si accede dopo un lungo corridoio, per lo più deserto: all’una del mattino non è una fotografia che può sorprendere, la fila di porte chiusi e luci spente. Più sorprendente è il vociare sempre più forte che arriva da dietro quel vetro satinato, man mano che ti avvicini. Spalanchi la porta ed ecco gli uffici della Questura come non li si vede così di frequente. Ci sarà almeno un’ottantina di poliziotti in borghese. Si salutano. Si presentano. La maggior parte di loro non si conoscono. Nell’aria si percepisce la frenesia dei grandi appuntamenti. Del colpo dopo una lunga e paziente indagine.

Reportage durante il blitz della polizia contro la ’ndrangheta. Video

Contesto ’ndranghetista

Il blitz che ha portato 25 persone in cella e 5 ai domiciliari, inizia così. Tra il vociare concitato dei poliziotti che, di lì a un paio di ore, dovranno svegliare i destinatari dei provvedimenti di cattura e comunicare loro: «Dobbiamo portarla in carcere».

Abbiamo seguito l’operazione in presa diretta. Passo dopo passo. Minuto dopo minuto. La convocazione è per l’una del mattino. In Questura non ci sono soltanto gli uomini della squadra mobile di Como, tutti ovviamente convocati, e altri agenti comaschi, ma anche poliziotti del Servizio centrale operativo di Roma, delle squadre mobili del resto della Lombardia oltre che di Verona, Novara, Piacenza. E poi altri reparti speciali. Gli agenti in divisa del reparto prevenzione crimine di Milano. In totale non meno di 120 poliziotti.

Mezz’ora di tempo e i capi pattuglia si riuniscono nella sala riunioni al primo piano. Al tavolo, a illustrare l’operazione, il capo della mobile, Matteo La Porta, il suo vice, l’ispettore Fernando Capobianco, ed Eugenio Masino, dirigente dello Sco. «Il contesto di questa indagine - spiega quest’ultimo - è tipicamente ’ndranghetista anche se non è stata contestata l’associazione mafiosa. Ma le persone coinvolte sono legate alla criminalità organizzata. Ed è indispensabile fare attenzione». Cautela, dunque: ma anche «rispetto». Che non c’è bisogno di mostrare i muscoli per far vedere da che parte sta la giustizia.

L’ora x dell’irruzione

Le tre del mattino è l’ora x: «Entrate tutti in quel momento. E appena ammanettato il soggetto destinatario dell’ordinanza, scrivete subito ai coordinatori: “Preso”». Tre ore dopo le prime irruzioni, non manca nessuno: trenta “preso” su trenta da prendere.

Noi saliamo in auto con due uomini della squadra mobile di Como e quattro agenti dello Sco. A seguire, un’auto del reparto prevenzione crimine. Destinazione la casa di Marco Bono, originario di Rosarno ma residente a Cadorago. Parentele pesanti: la famiglia Pesce, dell’omonima cosca che con i Bellocco comanda il mandamento tirrenico. La fede, anche con la ’ndrangheta, se l’è tatuata addosso: sulla gamba, visibilissimo, c’è San Michele Arcangelo, sulla cui figura si fa il primo giuramento per essere affiliati alla malavita calabrese. A lui, come a tutti gli altri indagati, non viene contestata l’associazione mafiosa. Ma a lui, al contrario di tanti altri, viene imputata l’aggravante del metodo mafioso per via di minacce e questioni di usura ed estorsione nei confronti di imprenditori ai quali avrebbe prestato soldi.

L’abitazione di Bono è in una vecchia corte nel centro di Cadorago. Una casa di ringhiera come ve ne sono a centinaia nella provincia comasca. I poliziotti aspettano le tre in punto prima di suonare e bussare. Lui si affaccia al balcone in accappatoio: «Chi è?».

A rispondere è un ispettore dello Sco, che sfrutta l’accento delle sue origini (calabresi) per mettere in pratica la raccomandazione che non t’aspetti: «Signor Bono, la polizia. Gentilmente se ci apre il portone facciamo quattro chiacchiere e la risolviamo subito». Lui risponde un “ok” come se ci fosse abituato a essere svegliato nel cuore della notte.

«Grazie, gentilissimo» commenta il poliziotto.

L’ordinanza di custodia cautelare da consegnare all’indagato (accusato di associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico con l’aggravante dell’utilizzo delle armi, usura ed estorsione aggravata dal metodo mafioso, autoriciclaggio e indebita percezione di erogazioni pubbliche) è di 670 pagine: «Le sintetizziamo le accuse. Avrà tempo di leggerla». Lui, a ogni accusa, fa l’espressione stupita di chi non ha nulla a che vedere con simili contestazioni. Men che meno con l’accusa di usura. Ma mentre i due ispettori illustrano le contestazioni, gli altri agenti perquisiscono l’appartamento e dopo cinque minuti spuntano tre mazzette di denaro in contante. Quindi altre due. E poi ancora un’altra. E un’altra ancora. Alla fine si conteranno poco meno di 20mila euro in contanti. E poi assegni in bianco firmati da tre persone diverse per un importo totale di 45mila euro. E le cambiali: una decina. E poi un libro mastro con nomi, cifre, debiti, crediti. Sembra la sintesi perfetta che accompagna l’accusa di usura. Bono fa spallucce. Ha la voce pacata. Segue placido i poliziotti.

Salta la perquisizione nel distributore di benzina che ha gestito per anni: da alcuni mesi, infatti, lo ha ceduto. Peccato, pensano gli agenti. Perché lì avrebbero saputo con certezza dove cercare la pistola, che nelle intercettazioni l’uomo pare avere, e poi la droga, che avrebbe acquistato e venduto a chili, sempre secondo le contestazioni della Dda.

La moglie gli prepara una borsa e un piccolo trolley. Quindi Marco Bono inforca la porta di casa e sale sulla Megane in borghese della Questura di Como. Destinazione il carcere di Opera. Prima di tornare a Cadorago, rischiano di passare mesi. Più probabilmente anni, se le accuse reggeranno.

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