Cronaca / Olgiate e Bassa Comasca
Lunedì 07 Ottobre 2024
Storie criminali: «Gli assassini non cercavano i soldi. Il “Berto” fu ucciso per il testamento»
L’omicidio Il racconto di un parente di Umberto Bernasconi, assassinato nel dicembre ’93: «Aveva appuntamento dal notaio»
Il movente dell’omicidio di Umberto Bernasconi, ucciso nella notte tra il 23 e il 24 dicembre 1993 da uno o più assassini tuttora ignoti, sarebbe da ricercarsi nell’eredità e nel testamento che il pensionato - intestatario di un patrimonio ricchissimo, miliardi di vecchie lire in titoli, case e terreni - avrebbe dovuto stilare di lì a poche ore davanti a un notaio con il quale aveva già preso appuntamento per il giorno 27. A raccontarlo a La Provincia è un parente del “Berto”.
Quella che segue è la sua versione.
Il passato da contrabbandiere
«Per molti anni pochissime persone hanno avuto accesso alla casa in cui vivevano i coniugi Bernasconi. Una ventina d’anni prima di morire, la moglie – che si chiamava Giovanna ma che tutti conoscevano con il nome di Elda – si era ammalata di cancro ed era stata operata. Dopo diverse sedute di chemioterapia, lui le aveva imposto di lasciar perdere. La vedeva stanca, sofferente, e lei aveva obbedito, come aveva fatto sempre per tutta la vita. Non si poteva che l’Umberto fosse cattivo. Forse un po’ rude, ma non cattivo. Aveva sempre avuto il pallino degli investimenti, e da quel che si diceva in giro non ne aveva mai sbagliato mezzo. In famiglia si sapeva che molti anni addietro, forse addirittura prima di sposarsi, aveva fatto il contrabbandiere. Si diceva che avesse fatto affari perfino con le navi cariche di sigarette, giù al sud. Tutto quello che aveva guadagnato lo aveva investito in immobili, boschi, terreni. Con quei soldi aveva costruito una prima casa subito dopo le nozze, poi volendone una più grande ne aveva edificato una seconda, quella di via per Gironico che avrebbe potuto essere una villa bellissima: marmo di Carrara, lampadari a goccia di Murano, uno splendore sprecato, visto che marito e moglie vivevano relegati in cucina, al piano terra, con il cane e le galline. Avevano una modernissima cucina a gas che però non utilizzavano mai, preferendole sempre la stufa a legna. Ogni tanto lui spariva: “L’è andà a Milan a giugà in bursa”, diceva la Elda... Per casa girava un tipo che in qualche modo gli amministrava i risparmi, una sorta di consulente finanziario».
«Qualche nipote diede un po’ una mano quando, prima di rinunciare alle cure, lei faceva la spola con l’ospedale. Per un certo periodo sembrò stare meglio poi un giorno non riuscì più a camminare. Quando gli suggerirono di chiamare un’ambulanza, lui si mise di traverso e pretese che fosse accompagnata in auto. Era così il “Berto”: non voleva che nessuno sapesse mai nulla. Poi, il mese successivo, lei tornò a casa praticamente immobile e costretta su una carrozzina; lui la afferrò e la spinse davanti alla stufa: “Dai Nina che l’è mezdì... Prepara de mangià”. Non voleva che nessuno le si avvicinasse. Un anno prima che venisse a mancare, decise di portarla in una Rsa dalle parti di Solbiate, ma la mattina del giorno dopo aveva già cambiato idea. Se la caricò in macchina e se la riportò a casa».
L’ultima telefonata
«Quando la Elda morì, l’Umberto sembrava perso, smarrito, confuso. Per qualche giorno continuò ad apparecchiare la tavola per due. Una nipote andò a trovarlo all’antivigilia, poche ore prima che lo trovassero morto, ma trovò tutto chiuso. C’era l’auto, ma non lui, che poco prima era stato visto in giro in paese con il pensionato di Gironico che gli faceva un po’ da autista quando aveva bisogno di uscire per piccole spese o per andare in banca, ché ultimamente guidava sempre meno spesso. Quanto all’omicidio fu scoperto la sera della vigilia. A lanciare l’allarme fu l’infermiere che aveva accudito la moglie. Riferì di essere smontato in mattinata dal turno di notte in ospedale e di avere cercato a lungo il signor Bernasconi con il quale si era accordato per vedersi e scambiarsi gli auguri».
«Allarmati da quella telefonata i nipoti posteggiarono in cortile e sbirciarono attraverso le tapparelle della cucina, che non erano del tutto abbassate. Oltre il muro scorsero le gambe. “Quello è un cadavere”, disse l’infermiere. I carabinieri di Lurate Caccivio arrivarono pochi minuti dopo. L’Umberto era a terra morto, semi incaprettato, bocca e naso avvolti in quel nastro adesivo passato sotto il mento e dietro la nuca con una “cura” e una precisione impressionanti, che fecero pensare a una operazione compiuta senza fretta da qualcuno che sapeva di avere a disposizione tutto il tempo che gli fosse servito».
Il denaro al suo posto
«La casa era tutta sottosopra, eppure alla fine si scoprì che non mancava nulla. L’oro di lei era ancora in solaio; i carabinieri lo trovarono lì, custodito in un fagotto in bella vista, alla mercé di chiunque. Nella stufa, invece, c’erano ancora 45 milioni di lire che provenivano da un conto che lui aveva appena chiuso e che inizialmente aveva conservato sotto il materasso prima di risolversi a trovare un nascondiglio migliore. E poi le lire dell’affitto di un capannone che aveva riscosso giusto il pomeriggio del 23, due milioni in contanti che teneva in una tasca della giacca appesa all’attaccapanni di fianco al punto in cui fu ritrovato il cadavere. Anche quelli erano ancora al loro posto, così come gli altri 27 milioni che i carabinieri trovarono in un secchio colmo di granaglie per le galline».
«Mi creda, chi lo uccise non cercava i soldi... Delle due l’una: o cercavano il testamento o provarono a fargliene scrivere uno sotto dettatura. E sa perché? Perché l’Umberto aveva già preso appuntamento con un notaio per il giorno 27. Dopo la morte di sua moglie aveva espresso il desiderio di lasciare tutti i suoi beni a un ente benefico, un ente religioso».
«Dopo il funerale una cognata raccontò di avere chiamato in casa la sera dell’antivigilia, cioè poche ore prima del delitto, e di avere parlato con un amico di lui, un pensionato che viveva in Ticino e che era lì a fargli visita. Fu riportato tutto ai carabinieri, al maggiore D’Elia e al povero maresciallo D’Immé (che pochi mesi dopo sarebbe caduto in un conflitto a fuoco a Locate Varesino, ndr). Fecero le loro verifiche, ma non arrivarono a nulla. Trent’anni dopo io ne resto convinto: quell’uomo morì per il testamento».
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