Adda, il fiume dei poeti. In origine era “donna”

Secondo lo scrittore del VI secolo Cassiodoro significa “corso d’acqua dalla doppia sorgente”. È perlopiù declinato al femminile fino a Carducci. Ispirò Manzoni e Quasimodo, ma i versi più belli al tratto valtellinese li ha dedicati Alfonso Gatto

Spesso, l’origine del nome d’un fiume (per la precisione: di un idronomo) è incerta. Per esempio Adda viene dal latino “Addua” e rinvierebbe al celtico “Abdua” che significava qualcosa come “acqua corrente”. E il grande Cassiodoro è andato a scartavetrare la parola e ha rintracciato un sottostante “ab-duo”. E da lì ci ha messo poco a individuare un senso più specifico: “corso d’acqua dalla doppia sorgente”.

E questo corrisponde più o meno al vero, come attesta il resoconto di Giovanni Guler von Weineck che con attenzione visitò la Valtellina nel 1600, e scrisse attorno al «celebre fiume che dai latini è detto Abdua, Abduas e Aduas, mentre gli italiani e i tedeschi lo chiamano Adda, Aada, od anche Ada. Due opinioni - continua - corrono sulle sue origini: alcuni infatti vogliono che abbia le sue sorgenti in un lago di Val Fraele, donde un notevole emissario esce nascostamente fra massi e dirupi, procedendo sino al luogo dove lo si vede riapparire da una risonante caverna e poi dall’orlo di questa, che si eleva come un muraglione, precipitarsi giù nella valle. Altri invece sostengono con miglior fondamento che diano origine all’Adda i piccoli ruscelli derivanti dalle nevi e dai ghiacci».

Sostrato protostorico

Addentrandoci negli etimi, osserviamo come il tipo linguistico che contiene la successione fonetica “A-una o più consonanti-A” (sto ricordando le ricerche del Devoto) attesterebbe l’antichità forse da sostrato ancora protostorico del termine. Faccio allora un tentativo di archeologia ricostruttiva decisamente poco ortodosso: è segnalata nel dizionario di Helmuth Rix una radice verbale indoeuropea “dalh-” (che potrebbe pronunciarsi “dal” con una specie di aspitazione finale, il condizionale è sempre d’obbligo) e dovrebbe significare qualcosa come “fuoriuscire”, “sgorgare”, E, a questo punto, i conti tornerebbero o quasi. E tornerebbe anche la tesi attorno all’alta antichità del termine, rispetto al quale i citati “Addua” aut similia si configurerebbero come una serie di riadattamenti da idioma arcaico a idioma più recente. E proseguendo, notiamo che la parola è di genere femminile, come nel tempo dei tempi lo erano in Eurasia tutti i nomi dei corsi d’acqua. Caratteristica parzialmente perduta in tante lingue indoeuropee, rigorosamente mantenuta nel russo: a Mosca si dice la Volga e non il Volga.

Etimologie più o meno attendibili a parte, l’Adda è un fiume di cui si è scritto molto. E a volte, molto bene. Segno di fascino da luogo dello spirito. L’Adda, è noto, viene richiamata nelle prime righe dei “Promessi Sposi”. E Manzoni aveva dedicato al corso d’acqua una serie (non memorabile, in verità) di endecasillabi sciolti giovanili e di chiarissima impronta montiana («Diva di fronte umil, non d’altro ricca/ che di povera onda e di minuto gregge»). E l’Adda, si sa anche questo, verrà passata con ansia e successo da Renzo Tramaglino in fuga da Milano e in cerca di rifugio nella Serenissima.

Dai libri ai quadri

Ma, probabilmente, sull’Adda non se ne è solo scritto. Non facciamola lunga: pare proprio che lo sfondo della Gioconda leonardesca sia da rintracciarsi nell’alta valle del fiume, quasi al livello, ancora una volta, dei luoghi manzoniani. E anche una versione contemporanea e semi-gemella e di qualità inferiore del grandioso dipinto, attribuita al pittore Francesco Melzi (amico di Leonardo da Vinci e nato, guarda caso, a Vaprio...) riprodurrebbe con qualche variante quello stesso sito. Insomma: l’Adda è celebrata in versi, descritta in narrazioni memorabili, riprodotta in dipinti memorabili. E questo dovrebbe far gonfiare l’ego di chi abita su quelle sponde lunghe 313 chilometri, che scendono dall’alta Valtellina fino al Lodigiano e al Cremonese.

Basta? No, non basta. Perché anche il Carducci rimase colpito dalla vista del fiume. E la descrive all’altezza di Lodi: «Ecco, ed il memore ponte dilungasi: / cede l’aereo de gli archi slancio, / e al liquido s’agguaglia / pian che allargasi e mormora». E va, in margine ma in sintonia con i nostri discorsi, notata la curiosa operazione linguistica del Giosue nazionale: recupera il termine latino ma lo torce al maschile. E il risultato è un “Addua cerulo”. Segnale interessante, forse di una percolazione degli idronomi che continua anche oggi in ogni livello della lingua? Può darsi, considerato (per fare un esempio) che il fiume Sarca (quello che nasce dall’Adamello, passa nel Garda e esce con il nome di Mincio di virgilianissima memoria) tra i nativi che parlano dialetto è ancora chiamato “la” Sarca.

Ma torniamo all’Adda. E passiamo a un autore che in gioventù i fiumi li osservava e raccontava in versi dell’Anapo e del Plàtani. E che nella maturità, trasferitosi al Nord, si è trovato ad aver a che fare con i corsi d’acqua lombardi, canali o fiumi che fossero: con il Naviglio, per esempio. Ma anche con il Lambro. Si sta parlando di Salvatore Quasimodo. Che compose, probabilmente nel 1943, un “Presso l’Adda”. Dai manoscritti, sembra che sia stata una stesura non semplice, forse faticosa con numerose cancellature e rifacimenti. Riporto qualche verso: «Striscia l’Adda al tuo fianco nel meriggio / e segui l’ombra a rovescio nel cielo / Qui, dove le curve pecore risalgono / con il capo affondato dentro l’erba, / saltava l’acqua a taglio della ruota / e s’udiva la ruota del frantoio / e il tonfo dell’uliva nella vasca». Pecore e pecorelle, a questo punto, sembrano una costante di chi passa sul fiume e guarda i dintorni: si rifaccia caso al manzoniano “minuto gregge” citato sopra. Meno attendibile il riferimento di Quasimodo a ulivi e frantoi, assai poco lombardi. E se allora il poeta di Modica avesse incrociato due paesaggi, due luoghi? Uno presente e uno della memoria? Possibile. Non basta ancora. Non c’è, in poesia, solo l’Adda da pianura. C’è anche quella valtellinese, quella più vicina alle sorgenti. Dipinta in versi da Alfonso Gatto: «Addio, povera sera di maggio [...] La terra / è una vecchia reliquia a chi la porta / tutta la vita sulle spalle invano / per dar seme alla roccia dove l’Adda / corre di gioventù nei suoi colori».

Dunque: è un fiume poetico come pochi, l’Adda. Con buonissimi motivi. Uno dei quali potrebbe essere il panorama che il visitatore osserverà, se si reca da quelle parti, dal ponte ad arco di ferro che collega Paderno e Calusco, tirato su alla fine del secolo XIX. Memorabile.

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