Contro l’overtourism: la lezione di Piero Chiara

Già in un articolo del 1985 il grande scrittore denunciava gli effetti del turismo di massa avviando una riflessione senza pregiudizi. Un testo su cui riflettere per tutelare Lario e valli

Gli scritti che Piero Chiara, oltre quarant’anni fa, ha dedicato al tema della tutela dell’ambiente, del territorio e dei beni culturali rivelano uno sguardo sorprendentemente non lontano dalla nostra contemporaneità; oltre che, come sempre, la grande acutezza ed efficacia espositiva dello scrittore luinese.

Nel dicembre 1985 compare su “Qui Touring”, la rivista del Touring Club Italiano, un suo articolo intitolato “Turismo di massa. Come arginarlo”. Gli elementi essenziali del pensiero di Chiara sono: il turismo di massa rischia di compromettere il nostro patrimonio storico; bisogna intervenire attraverso gli “organi istituiti a questo fine” per regolarlo e “dargli un contenuto possibilmente culturale ed educativo”.

Per capirci subito: Piero Chiara era un liberale, impegnato in politica nel Pli, di cui sarà, nel 1984, vicesegretario nazionale: un coltissimo galantuomo di destra. In una lettera a Vittorio Sereni del 27 novembre 1950 rimprovera l’amico scrittore e poeta: «Ho disapprovato che tu scriva sulla stampa di sinistra»; i suoi strali critici si rivolgevano a quella sinistra benché la sua cultura coerentemente conservatrice gli consentisse anche di parlare dei fascisti (in quel caso varesini) come di «quattro stronzi di periferia» (nel racconto “Il povero Turati”: Augusto Turati, segretario locale del Pnf).

Regole necessarie

Se, dunque, si risolve a invocare una regolazione del turismo, è perché vede nello sviluppo di questo fenomeno (siamo, si è detto, nel 1985) delle conseguenze negative che impediscono di “lasciar fare”, secondo una pura visione liberista.

Il turismo di massa non può essere una semplice manifestazione di realtà economica, regolata dalle spontanee leggi del mercato, ma implica conseguenze che - anche per un liberale - vanno previste e orientate. Peraltro, per argomentare questa sua posizione, Piero Chiara descrive da par suo questo turismo di massa partendo da lontano, dall’esperienza dei treni popolari dell’epoca fascista, che man mano recapitano folti gruppi dapprima sui laghi lombardi poi nelle città d’arte.

Parallelismi

E la sua descrizione del turista disorientato a Venezia è senza tempo. «Quelle orde si slanciavano su Venezia dando una guardata a destra e a sinistra sul Canal Grande, osservando con curiosità le gondole e qualche palazzo. Arrivate a San Marco inondavano la piazza, spasimavano alla vista degli ingordi piccioni, davano un’occhiata al campanile, poi, passando già cogniti di tutto davanti al Palazzo Ducale, si spargevano lungo la riva degli Schiavoni dove, conquistato un posto sul bordo del lastricato, si toglievano calze e scarpe, e coi piedi lambiti dalle onde, aperte le loro borse, divoravano frittate, affettati e frutta».

Come non pensare alle “orde” che giungono oggi a Como e in altre località lombarde. Sguardi distratti, lontani dalla storia e dall’arte delle città. Panini costosi al posto dei cartocci con la frittata (ma persistono affettati e frutta per i più avveduti che ne fanno scorta nei supermercati). Alcuni convinti - informazione proveniente da un attendibile taxi boat driver - che in un’ora si possa vedere e instagrammare tutto il Como Lake, fino a Lecco; altri collocati in mille luoghi (che siano il monumento per i caduti di Massimo Clerici e Doriam Battaglia davanti a Como San Giovanni, la Passeggiata degli innamorati di Varenna, i ponti o le cantine di Morbegno) di cui si credono “già cogniti di tutto” (come scrive Chiara) solo perché impegnati in selfie compulsivi.

Si può osservare criticamente questa quotidianità odierna senza cadere nell’elitarismo. Anche quella che Piero Chiara ci consegna non è una visione elitaria e infastidita del turismo di massa, bensì l’esigenza che il turismo “abbia senso”.

Un senso che rinvia alla necessaria socialità dei fenomeni che riguardano l’insieme di donne e uomini, quelli che si spostano verso una “meta turistica”, quelli che ci vivono, lavorano, ci devono trovare casa e fare la spesa; quelli che amano la propria città. Perché chi ama la propria città non può che vivere con disagio e sofferenza la randomizzazione dei rifiuti da sacchetti multipli dei gitanti mordi e fuggi («dopo aver insozzato i loro percorsi» scrive Chiara), l’assunzione come suono tipico del luogo delle sgasate urlanti di moto dei bikers del finesettimana e non solo, le complessive, devastanti, conseguenze socioeconomiche dell’overtourism.

E un senso da attribuire alla presenza di persone provenienti da tutto il mondo per far sì che il nostro territorio e le nostre città un po’ li conoscano e magari un po’ imparino a voler loro bene.

Migranti e gitanti

Chi si duole della presunta invasione dei migranti in luoghi sparsi d’Italia, è tuttavia disposto ad ammettere che arrivino in maniera regolata, che siano rispettosi del nostro vivere sociale, che comprendano la nostra cultura.

Chi osserva la reale invasione di turisti e gitanti (bisogna considerare anche questa distinzione) nella propria città, legittimamente può chiedere che queste masse arrivino in maniera regolata, che siano rispettose del nostro vivere sociale, che comprendano la nostra cultura.

Fuori del paradosso, turisti, gitanti e cittadini vanno aiutati dai decisori politici, locali e non solo: con decisioni, con interventi, con il superamento del puro lasciar fare liberista.

Come diceva - ancora - Piero Chiara, a proposito dei turisti di massa, bisogna ad esempio «studiarne l’incanalamento verso altre mete meno vulnerabili»; e accompagnarli nella conoscenza del luogo che visitano: evitandone lo stordimento vano descritto dallo scrittore.

Idee di quarant’anni fa. Oggi solo alcune delle molte idee di cui discutere. Di overtourism si sta parlando - a Como, soprattutto, ma anche a Lecco e Sondrio - con interventi autorevoli, approfonditi e anche appassionati: da cui si può partire per ragionarne approfonditamente. Né i percorsi insozzati, né i residenti espulsi dalle loro città, né la selfizzazione compulsiva sono un destino inevitabile.

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