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Domenica 23 Aprile 2023
Critica delle maternità surrogata: persone equiparate alle cose
Il filosofo Alessio Musio ha dedicato un libro al tema e ritiene la pratica eticamente inaccettabile: «Anche nei rari casi non commerciali, non si può donare qualcuno che è altro da sé». “L’Ordine” del 22-23 aprile approfondisce l'argomento con un numero monografico
«Figli stipati come uno stock di merce invenduta» scrive nel prologo del suo libro “Baby boom. Critica della maternità surrogata” (Vita e Pensiero, 2021, pp. 280, 22) Alessio Musio, docente di Filosofia morale all’Università Cattolica, a proposito dei 46 bebè nati da madri surrogate e rimasti bloccati nella hall di un albergo in Ucraina a causa del lockdown del 2020. La stessa sorte pare sia toccata a circa 500 creature ordinate da coppie e single di varie parti del mondo, italiani inclusi. Un dato molto concreto a cui ancorare l’analisi delle innumerevoli implicazioni - etiche, culturali, psicologiche, giuridiche, fisiche, politiche ed economiche - della “maternità surrogata”. Ne parliamo con l’autore.
Una notizia shock, professor Musio, quella dei neonati trattati come merci qualsiasi. Però a molti è sfuggita perché è apparsa sui giornali quando eravamo troppo preoccupati per gli effetti che il Covid avrebbe potuto avere su ciascuno di noi. Qual è stata la sua reazione leggendola?
Ho pensato che il mio libro non potesse che cominciare con l’immagine da lei ricordata, anche se al momento dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia mi è spiaciuto averlo fatto - per quanto anche la guerra abbia messo in evidenza, in modo ancora più drammatico, gli stessi nodi in riferimento ai servizi di maternità surrogata ucraini: basta seguire i video pubblicati in questi ultimi mesi da una company come Biotex.com. Il senso di quell’immagine comunque è inequivocabile e ci racconta di figli che vengono messi al mondo su commissione, in qualche modo prodotti e consegnati a chi ne aveva determinato l’esistenza secondo una logica di mercato che, come nel caso di ogni altra merce, può andare incontro a improvvisi problemi di logistica. Solo che mentre una merce può essere stoccata in un magazzino, così non si può fare, semplicemente, con gli esseri umani. Insomma, quell’immagine svela in modo potente il volto reale del bio-business della maternità surrogata, facendo piazza pulita di molto retoriche che puntano su sentimenti altruistici e pseudo-logiche di dono. Infatti, per quanto la dimensione commerciale della “surrogacy” non ne esaurisca tutte le possibili sfaccettature - vi sono in effetti anche casi che si inscrivono in logiche non commerciali, ma sono davvero pochi e non possono essere utilizzati come definizione tout court della pratica - qui essa trova la sua sintesi migliore. Per questo sono partito da lì.
Nel dibattito tra i favorevoli e i contrari all’“utero in affitto” lei inserisce un ulteriore elemento, ovvero mette in dubbio la correttezza dell’espressione stessa di “utero in affitto”. Cosa non la convince?
È un punto importante, perché spesso si sceglie il termine da usare per designare la pratica della “surrogacy” a seconda della valutazione che se ne ha. Ma questo filosoficamente è sbagliato, perché un’espressione va individuata, prima che per la sua capacità valutativa, per quella descrittiva: per la capacità cioè di saper restituire senza scarti e rimozioni il fenomeno di cui vuole parlare. Così, “utero in affitto” piace a chi vuol far vedere la logica capitalistica, mercificante e decostruttiva della pratica commerciale della “surrogacy”. Mentre “gestazione per altri” piace a chi vuol far vedere la dimensione altruistica e di dono che è sottesa ad alcuni suoi (pochi) casi. Per me sono entrambe, in ogni caso, insufficienti perché omettono e non fanno vedere una serie di elementi: la parola madre, il materno, la gravidanza e il parto, la messa al mondo del figlio, la sparizione dopo il parto, i contratti, le transazioni in denaro ecc. Per questo ritengo che maternità surrogata sia l’espressione più adeguata: dice che si tratta comunque di una forma di maternità - cioè che stiamo parlando del fatto che c’è una madre che mette al mondo un figlio - introducendo una logica di sostituzione che scompone il processo materno, perché quella madre si impegna, nella stragrande maggioranza dei casi, a scomparire dopo il parto, mentre il suo corpo, al contrario, si prepara a continuare ad accudire il figlio, banalmente perché sente “arrivare il latte”. È interessante, da questo punto di vista, notare come le astrazioni della “psico-tecnologia” della “surrogacy” siano smentite dal corpo e dalla carne di quelle stesse madri...
Lei passa in rassegna anche il dibattito interno al mondo femminista, fortemente diviso sulla maternità surrogata, ma sottolinea come sia un errore legare il tema solo al corpo femminile, dimenticando che la generazione viene dall’incontro tra due individui, una donna e un uomo. Gli uomini, nel senso di maschi, rischiano ancora una volta di “rimanere a guardare”, come troppo spesso è stato rispetto all’aborto o all’affidamento dei figli nelle separazioni?
È vero, c’è una spaccatura nel femminismo sul tema. Possiamo richiamare i titoli di due volumi pioneristici di autrici agli antipodi: quello di Gena Corea che parlava della “surrogacy” come parte del processo degradante di realizzazione della macchina materna (“The mother machine”) e quello di Carmen Shalev che vi coglieva, invece, la possibilità di trasformare la maternità attraverso l’immagine del nascere per contratto (“Birth power”, nell’originale inglese), come se proprio con il contratto di maternità surrogata potesse diventare possibile equiparare finalmente il femminile al maschile. Peccato che una donna possa fare un contratto di maternità surrogata solo perché donna, cioè perché non è un uomo, il quale, del resto, non potrà mai partorire su commissione. In ogni caso, non direi che nel caso della “surrogacy” gli uomini rimangono a guardare. In molti suoi tracciati, anzi, si servono in modo strumentale e misogino del corpo femminile, evocando addirittura l’idea di un diritto alla maternità surrogata che altro non è se non una pretesa d’uso del corpo delle donne. Poi resta molto importante quanto da lei ricordato: se la gravidanza e il parto sono un fenomeno femminile, non lo è la generazione, che è un fenomeno relazionale, maschile e femminile insieme. Nella generazione umana - quando è all’altezza del suo significato - né il maschile né il femminile, in ogni caso, sono un puro mezzo procreativo.
In diversi punti del suo libro richiama la sostanziale differenza sotto il profilo bioetico legata al passaggio tecnologico dall’inseminazione artificiale, praticata dagli anni Ottanta del Novecento, alla Fivet (fertilizzazione in vitro) di oggi.
Ce la può spiegare?
La novità sta nel fatto che la Fivet rende possibile qualcosa che nella storia umana non era mai esistito: scomporre ciò che nella carne accade nel corpo di un’unica madre in quello di tre figure materne. La madre genetica, che indica colei che mette a disposizione l’ovocita; quella gestante, che si occupa per nove mesi della gestazione e del parto, consegnando il bambino alla madre sociale, la donna - se di una donna effettivamente si tratta - che si occuperà poi del figlio una volta nato. Questa la novità radicale resa possibile dalla Fivet che rende difficile in primis per il figlio, ma anche per noi, rispondere alla domanda su chi sia la sua vera madre. Si sarebbe tentati, infatti, di dire che è imparagonabile quello che fa la donna che per nove mesi mette, 24 ore su 24, a disposizione il suo corpo per portare in grembo e far nascere un figlio - rischiando in non pochi paesi ancora di morire di parto - con ciò che fa la donna che si limita a mettere a disposizione l’ovocita, concludendo così che la vera madre, almeno dal punto di vista della carne, è quella che lo mette al mondo. Sennonché, a chi somiglierà quel bambino? Di chi avrà il sorriso, l’espressione o i tratti del volto? E se avrà un problema di salute su base genetica, a quale delle due andrà ricondotto? A quella che si è “limitata” a mettere a disposizione l’ovocita, il che basta per ribaltare completamente il senso della risposta precedente. A chi chiedesse con sufficienza, poi, perché la domanda “chi è mia madre?” resti importante ancora nel nostro tempo, si può rispondere ripensando - con un certo imbarazzo per chi la pone - a tutta la storia della cultura...
Lei punta il dito contro gli «improbabili tentativi di retrodatazione [della maternità surrogata] addirittura alla Storia Sacra», sostenendo che sia imparagonabile la scelta di far partorire in propria vece un’ancella rispetto alla maternità surrogata “hi tech” di oggi .
Perché?
Perché in quei riferimenti manca la scissione del materno di cui abbiamo appena parlato: senza la tecnologia della Fivet non ci sono le tre madri, non c’è quella scomposizione che nel mio libro cerco di indicare già dalla copertina. Nella Bibbia si racconta, in effetti, di ancelle chiamate a partorire al posto di alcune matriarche che non riuscivano ad avere figli: è il caso di Abramo e Sara con l’ancella Agar, di Giacobbe e Rachele, di cui è celebre l’espressione «dammi dei figli, se no muoio». Ma quelle ancelle erano, appunto, le uniche madri carnali del bambino, tanto che lo avevano generato attraverso un rapporto sessuale: in alcuni casi finivano per prendere il posto delle legittime mogli o comunque le relazioni nella casa finivano per essere turbolente, dato che le ancelle non sparivano e restavano in presenza del figlio. Fa sorridere, in ogni caso, che si cerchi di legittimare la pratica della “surrogacy” con questi racconti: intanto perché il racconto biblico non è “ipso facto” una legittimazione, poi perché si trattava appunto di schiave e non di «libere imprenditrici delle loro capacità riproduttive», come oggi le si vuole ipocritamente definire... Il punto di non tenuta dell’analogia è in ogni caso proprio l’assenza della tecnologia e con essa delle sue scomposizioni.
A proposito di ancelle, come si inserisce, a suo avviso, “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood, e la serie tv che ne è stata tratta, nel dibattito sulla maternità surrogata?
Direi che è un riferimento possibile solo in modo parziale. C’è, in effetti, il far nascere per conto terzi e lo sparire dopo la nascita come nel bio-business della “surrogacy”, ma non c’è né nel romanzo né nella serie l’intervento delle tecnologie riproduttive: si tratta di donne che subiscono una violenza sessuale e non di un accordo commerciale o di una libera volontà di dono. In ogni caso si tratta di un riferimento su cui è importante pensare - io nel libro vi dedico un intero capitolo - e che contiene la denuncia di un duplice possibile errore. Si può dire che Atwood metta in scena una doppia condanna: l’astrazione di chi vuol ridurre le persone alla loro biologia e la simmetrica astrazione di chi ritiene che ciò che accade nella biologia non abbia nessuna rilevanza per la biografia. Mi pare che il romanzo sia una fortissima denuncia di questi due errori, cui forse possiamo aggiungerne un terzo: perché nell’umano non c’è la biologia, ci sono i corpi e la carne, ed è tutto un altro significato.
Tra le sorprese contenute nel suo libro, anche la riscoperta di due articoli di Gramsci del 1918, che appaiono come una profezia: «Le povere fanciulle potranno farsi facilmente una dote. A che serve loro l’organo della maternità? Lo cederanno alla ricca signora infeconda che desidera prole. […] Venderanno la possibilità di diventar madri […] I figli nati dopo un innesto? Strani mostri biologici, creature di una nuova razza, merce anch’essi, prodotto genuino dell’azienda dei surrogati umani». È semplicemente l’intuizione di un’intelligenza visionaria o può suggerire una battaglia comune tra marxisti e cattolici contro la maternità surrogata vista come prodotto del liberismo più spinto?
È sicuramente l’espressione di un’intelligenza potente capace di vedere in anticipo i fenomeni. Quell’articolo è preceduto, come lei giustamente ricorda, da un altro scritto che si intitola “I surrogati” in cui Gramsci si chiedeva - e io ho scelto questa frase come uno dei due eserghi del libro - «che cosa c’è di autentico a questo mondo? Ci hanno abituato ai surrogati». Mettere insieme le due riflessioni è in effetti impressionante. Nondimeno, l’intuizione potente di Gramsci è utile anche per mettere in evidenza l’errore che si commette anche nell’attuale dibattito sulla “surrogacy”. Gramsci chiamava «strani mostri biologici» i figli nati dal sovvertimento capitalistico della generazione in produzione: ma i figli restano figli, comunque vengano al mondo. Io spiego che la maternità surrogata mette a rischio la distinzione tra persone e cose, ma perché tratta i figli come se fossero cose, non perché penso siano cose. L’obiezione, insomma, non è a loro ma a chi si arroga il diritto di generarli in questo modo. Non è ovviamente il caso di Gramsci, ma oggi c’è chi finge di non vedere il senso di questa semplice e in fondo banale distinzione. Il fatto che la critica alla maternità surrogata renda possibile, in ogni caso, un consenso tra posizioni culturali e politiche differenti è un buon segno: vuol dire che ogni tanto si riesce ancora a pensare con verità e senza steccati! Il nodo, comunque, non coinvolge solo la dimensione commerciale della maternità surrogata, ma anche quella cosiddetta solidale.
Perché? Ci sono rari casi in cui la “madre surrogata” vive la sua esperienza come un dono volontario e gratuito. A volte i giornali hanno citato come esempio - in realtà piuttosto a sproposito, perché non vi sono stati interventi tecnologici e pare più una famiglia allargata “sui generis” - quello di Lorca Cohen, figlia di Leonard, che ha “donato” una figlia a una celebre coppia di amici gay.
Io non ho nessuna obiezione nei confronti delle diverse forme del dono e del fatto che una donna possa voler donare qualcosa di sé a delle persone cui è legata. Il punto è che questo dono non può estendersi al figlio. Perché le persone non possono essere donate, possono al massimo decidere loro di donarsi ad altri. Né si può dire che a essere oggetto di dono sia solo il servizio gestazionale e non il figlio, perché non ci sarebbe quel servizio senza la presenza stessa del bambino.
Ci spieghi il titolo del suo libro, “Baby boom” e permetta una domanda politicamente scorretta: la pressione ad avere figli che proviene dalle alte sfere (per esempio da una parte importante del mondo cattolico o dalla nostra presidente del consiglio) e dalle generazioni precedenti (quante volte madri e suocere chiedono alle coppie “quando ci darete un nipotino”) non le sembra a volte che venga posta più o meno come un obbligo morale? E che dietro vi sia la preoccupazione per la decrescita degli italiani e dei cattolici rispetto ad altri Paesi (solitamente meno sviluppati) e religioni che non hanno il problema della crisi demografica? Soprattutto, l’insistente richiesta di avere più figli non è in contrasto con il rifiuto delle tecnologie che possono aiutare le coppie a riprodursi e con una popolazione globale che nel complesso è sempre in crescita ed è giunta a circa 8 miliardi di abitanti che stanno “divorando” le risorse del pianeta?
Risponderei così: che la denatalità sia un problema oggettivo lo mostra la crescente preoccupazione per la tenuta del welfare, perché il sistema dei bisogni di una società che invecchia sempre più non regge se non nascono nuovi figli capaci di sostenerlo. Tutti gli studi economici convergono su questo dato allarmante. Non ogni modo di rispondere al problema della denatalità è, però, adeguato ed è quello che vuole suggerire il titolo del libro che ha, in ogni caso, molti significati. Il primo è quello di mettere in evidenza il deflagrare, a molti livelli, della distinzione tra persone e cose. Il secondo consiste nel mettere a tema l’“eccesso generativo” che accade ogni qualvolta la logica relazionale della generazione è sostituita da quella della produzione, come nelle immagini pandemiche da cui siamo partiti. C’è poi la volontà di polemizzare con un eccesso che definirei non generativo, ma “generazionale”. La pratica della “surrogacy” nasce infatti più o meno negli anni Ottanta del Novecento, in cui sono cambiate molte cose, e la nostra società ha cominciato a essere imperniata su logiche di mercato e di consumo che hanno finito per esaurire e così surrogare il senso autentico della democrazia. Nel libro cito un articolo di Antonio Scurati, che definisce gli anni Ottanta come il tempo in cui è emerso “il nostro braccino corto” nei confronti della vita, perché è in quegli anni - «un combinato di edonismo sfrenato, individualismo disperato e ottimismo patinato» - che si è cominciato a vivere «misurando le nostre esistenze sul metro breve del presente assoluto. Un metro su cui non trovano spazio le grandi scene della vita: l’amore, l’arte, la politica (quella vera), la generazione dei figli». Ed è anche di questo, in fondo, che parla il libro, perché dietro la maternità surrogata si stagliano molti elementi di primaria grandezza del contemporaneo.
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