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Domenica 12 Febbraio 2023
Da Vivaldi a Hendrix, tutti figli di Euterpe
Un filo di note attraversa le epoche storiche restituendo ogni volta a chi le ascolta il dono inscritto nel nome stesso della musa della musica e della poesia lirica: dare gioia. L’intervento di Massimo Bubola per il numero del decennale de “L’Ordine”
Massimo Bubola
La musica si diffonde come una luce lambente e penetrante, che entra leggera e profonda nelle pieghe riposte del nostro cuore dilatandolo e tingendolo di colori insperati. Ha il potere di essere insieme unica e cangiante, sensuale e rivelatrice, errante tra la vita terrena e quella celeste aprendo strade verso l’infinito. Sa fissare la nostra memoria, donando all’attimo un nome e un luogo che rimarrà sempre trascritto con l’inchiostro indelebile nella nostra anima. La musica ha la possibilità di chiamare le parole a sé e di cambiarne la natura, la vocazione e quindi il significato ordinario.
La più incorporea tra le arti
La musica cresce spontanea come l’erba selvatica sui muri. Esce dalle finestre aperte, corre lungo le strade deserte e batte il tempo lungo la ferrovia. Si arrampica come la vite del pepe sulle cime più alte degli alberi e quando poi con un balzo si lancia e vola lassù con gli ippogrifi e gli unicorni e gira tre volte intorno alla luna. La musica, la più incorporea e inafferrabile tra le arti, è sempre incolume e interpretabile al di là dell’età e dello stato di chi l’ha concepita e composta e le ha donato un titolo, una tonalità, un tempo e dei movimenti. La musica non riesce in ogni caso ad avere quell’unica lettura e direzione, è più vicina alla tridimensionalità della scultura, la puoi guardare da più parti e da diversi stati d’animo, ma lei come una pioggia rilucente e impercettibile, segue il tuo momento e lo protegge accompagnandolo defilata fino alla riuscita.
All’Arena di Verona, da bambino, nelle serate dell’Opera Lirica a cui andavo con i miei genitori, ricordo la potenza dell’orchestra nella Marcia Trionfale, degli archi e dei cori, ma soprattutto dei fiati e dei timpani e la musica che mi squassava al suo principiare e mi avvolgeva in una spirale che mi trasportava su nel cielo estivo stellato, come raffigurava un bel manifesto dell’epoca alle entrate dell’anfiteatro, e siccome poco capivo dei testi cantati e della trama, anche se mio padre si sforzava di illustrarmeli lungo la strada, immaginavo altre storie che costruivo con l’immaginazione guardando le piramidi, le sfingi e gli scenari grandiosi dell’“Aida” o le alte muraglie della “Turandot”. Il “Nessun dorma” che cantava il famoso tenore, pensavo che fosse rivolto alla platea e soprattutto alle gradinate, dove il pubblico anziano a volte dormicchiava beato come il sottoscritto con la testa appoggiata sulle gonne di mia madre, mentre costruivo fantasticando qualcosa di mio, trasportato da una musica che abbracciavo e capivo e da parole sconosciute e misteriose che interpretavo a mio estro e diletto. Era davvero un’emozione impagabile per il mio piccolo corpo che vibrava di legni leggeri, come Pinocchio o come un violoncello dell’orchestra sinfonica. La musica mi invadeva e mi alzava da terra, regalandomi la prima chiave e la prima sintassi per i miracoli.
Così accadde anche con le prime canzoni in inglese che ascoltavo, senza capirle così le cantavo sopra e le traducevo ad orecchio con un suono simile al mio italiano e costruivo sulla musica personaggi e panorami inconsueti, spiritosi e poco plausibili. Era la musica delle note e delle parole che venivano da sé, senza cercare una logica o un filo conduttore. Era la musica che mandava il vento sulla mia vela e non mi interessava dove mi portasse. Poi, quando mi apprestai a vent’anni a fare la prima traduzione di una canzone dall’inglese, adattandola alla metrica e alle rime italiane, ricordo il rimpianto delle traduzioni dadaiste d’un tempo, totalmente avulse dal testo originale, ma che avevano una parentela con la musica più stretta e più intima della mia che era solo un ospite ingombrante nella casa di un altro.
Lacrime ad occhi aperti
Da liceale ricordo col mio amico Edoardo, già ottimo pianista, quando dopo gli studi, distendendomi sul suo monumentale divano di velluto verde smeraldo del salotto, gli chiedevo di suonarmi sul nero pianoforte a coda il “Notturno” di Chopin in mi bemolle maggiore o la terza delle “Consolations” di Liszt, musiche che creavano intorno a noi quella strana quiete piena di turbamenti e presagi e correlata da una volontà di lacrime ad occhi aperti. Era l’età dei primi amori sofferti che a queste musiche struggenti si dissetavano inebriando le nostre “albulae animae surgentes” che ad esse, senza difese, si abbandonavano. Chissà perché questi potenti ricordi dell’Opera li collego ai grandi ascolti nell’impianto audio ad alta fedeltà esoterica di un mio vecchio amico vignaiolo nelle Langhe, con cui ascoltavamo i Pink Floyd a tutto volume sulla vallata alle prime luci dell’alba con il supporto di infinite bottiglie di Barolo, poco psichedeliche davvero, ma il panorama dei sogni si allargava nell’aria tersa delle solitudine delle vigne e la potenza della musica e delle visioni su di noi anime suonate e suonanti.
Ho sempre molto amato la musica barocca e Vivaldi in particolare, di cui ascoltai il giorno dopo la maturità, per regalo, alcuni suoi concerti contenuti nella raccolta de “La Stravaganza” eseguiti da una piccola orchestra da camera nel Parnaso di un boschetto arcadico in una incantevole villa eneta. Come dal titolo la musica era così folle e innovativa, con soli di violino acrobatici e selvaggi e “larghi” in cui la musica si svuotava e si riempiva di silenzio punteggiato da piccoli trilli e scampanellii, come dopo un nubifragio meridiano. Era lo splendore dell’epoca della musica perfetta, composta dal prete rosso veneziano negli anni dieci del ’700.
Sul finire degli anni Sessanta del Novecento, invece, un altro virtuoso mi toccò il cuore e l’immaginazione per le sue invenzioni ed il suo virtuosismo con i suoi fraseggi di chitarra elettrica. Si chiamava Jimi Hendrix, e la sua musica ti penetrava come una spada e ti spaccava il cuore come una mela in due visioni speculari paradisiache e devastanti al contempo. Di “All Along The Watchtower”, la grande canzone di Bob Dylan, ne fece una versione straordinaria, con un lungo a solo memorabile che ancora mi fa venire le vertigini.
L’influenza ancora di Vivaldi e dalla sua musica naturalistica, virtuosistica e dorata, dalle architetture slanciate e leggere, la ritrovai poi in Händel e nelle sue composizioni fluide e maestose, come il mirabile “Messiah” e il ciclo di concerti “Musica sull’Acqua” suonato su una chiatta sul Tamigi con cinquanta musicisti per il re Giorgio I che ascoltava con la sua corte anch’essi su una barca.
“Le nozze di Figaro” è l’opera che più ho amato da giovane, per la bellezza della sua musica e orchestrazione e dei suoi cantati, così semplici da riprodurre e così affascinati e divertenti da intonare durante i lunghi trasferimenti in automobile con la famiglia. Personaggi come Cherubino, Susanna, Figaro, Marcellina e Don Basilio, che meraviglia. Le liriche del poeta e musicista Lorenzo Da Ponte sono parte organica di questa leggiadria mozartiana.
Una sera di inizio autunno del 1991 ero a Ragusa, Dubrovnik in croato, la città più a sud della Dalmazia. Era ancora in corso la guerra separatista nell’ex Jugoslavia, mangiavamo in un ristorante vicino alla bellissima chiesa barocca di sant’Ignazio, sotto l’alta scala, ispirata a quella di Trinità dei Monti, che portava ancora i segni di qualche colpo di granata dei serbi e sentivamo una musica divina girarci intorno, sopra e sotto. Erano piccoli gruppi corali polifonici che vagavano per l’antica città-repubblica, cantando antiche serenate e barcarole veneziane e ripensai alla finezza armonica e alla grazia di quella musica e a quando nel Settecento la musica colta veneta e napoletana si sparse e influenzò fortemente le melodie e le armonizzazioni popolari, al punto che tanta musica irlandese, dove furono nel ’700 invitati e accolti maestri veneti e napoletani, si arricchì di scale musicali raffinate, mediterranee e arabe, da cui la grande finezza ed eleganza del folk irlandese a tutt’oggi.
Penso che tutti questi, che sono una breve parte significativa, dei miei percorsi amorosi verso e attraverso la musica, si siano poi nel tempo dipanati, temperati e raddolciti dentro di me, dando, “si parva licet”, un forte sostegno alla musica che avrei composto negli anni a venire ed anche una direzione più compiuta e serena al mio lavoro di cantore e “suonatore di chitarre e di mandolino”. Sono tracce che riaffiorano in luoghi e contesti inaspettati, con tutte le sorprese che ci può donare il rincontrare una vecchia amica, eternamente giovane, la musa della musica e della poesia lirica Euterpe, anche dal nome donatrice di gioia.
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