De André e l’America, un amore difficile

Dori Ghezzi: “Cohen avrebbe voluto tradurlo. Dylan gli chiese di aprire un suo concerto, ma Fabrizio rifiutò per non celebrare la conquista di Colombo”

Dori Ghezzi, cantante e vedova di Fabrizio De André, presiede la Fondazione De André Onlus. Andrea Parodi è cantautore e organizzatore di concerti. Domenica 8 dicembre saranno le anime di “When Springsteen meets De André”, tappa lombarda del Light of Day a Figino Serenza (Co). Hanno realizzato per “L’Ordine” questo dialogo/intervista. L’8 dicembre il concertone al Teatro del Sacro Cuore inizierà alle 17.30 (apertura porte alle 17) ma ci saranno musica, cibo di strada e bancarelle per le vie del paese tutta la giornata. Biglietti a 25 (intero) e 15 euro (ridotto). Possibilità di cenare con gli artisti dopo il concerto, momento peculiare della tappa italiana del “Light of day” sempre ricco di sorprese musicali (su prenotazione, costo 20 euro). Per informazioni consultare la pagina facebook Light of Day Lombardia o scrivere a [email protected]. L’incasso della serata sarà devoluto per la ricerca sulle malattie degenerative.

Qual è la tua canzone preferita di Bruce Spingsteen?

Potrei dirti molti brani più conosciuti ma scelgo “Devils and Dust”. Mi emoziona lo Springsteen più acustico come quando andai a vederlo, voce e chitarra, al Teatro Smeraldo. Seguo Bruce Springsteen da “Born to Run” del 1975. Fabrizio ed io ci eravamo incuriositi perché la critica lo presentava come il nuovo Dylan. Ho sempre avuto una passione per Dylan, prima ancora di conoscere Fabrizio. Springsteen era decisamente più rock, ma con un tocco di blues e soul. Sicuramente sono entrambi figli di Woody Guthrie che resta il papà di tutti i cantautori, con la sua chitarra, la sua armonica a bocca e le sue parole che davano voce al popolo. Springsteen cantava canzoni semplici e dirette. Il linguaggio era diverso da quello di Dylan ma la forza e l’intenzione erano le stesse.

Qual è il punto di incontro tra Springsteen e De André?

Entrambi hanno cantato gli ultimi e lo hanno sempre fatto con empatia, mettendosi dalla loro parte, senza mai giudicarli. In questo modo sono arrivati al cuore della gente, si sono fatti amare in modo incondizionato. E sono arrivati a tutti, nessuno escluso, non esiste un identikit dei loro ascoltatori. Tutti subiscono il fascino di De André, la bellezza della musica, la qualità dei testi. Se ascolti le sue canzoni non puoi restare indifferente. Con la capacità di farsi amare anche da chi ha posizioni completamente diverse dalle sue. “Born in Usa” era un disco che denunciava le fragilità del sogno americano e fu invece strumentalizzato in modo patriottico e divisivo. Fabrizio osava perché si fidava della critica e si sentiva in sintonia col pubblico. A volte i suoi dischi sono stati compresi dopo. Non sempre raccontava l’epoca o i fatti che tutti si aspettavano in quel momento. Gli piaceva spostare l’attenzione da un’altra parte e dovevi fare dei passaggi in più se volevi veramente capire quello che ti stava comunicando. Nel 1968 si aspettavano da lui un disco come “Storie di un impiegato” e invece pubblicò “La buona novella” individuando in Gesù Cristo il più grande rivoluzionario e pacifista della storia.

Raccontaci la tua America…

Ho sempre avuto il culto musicale dell’America. Ma assolutamente non del resto. Se parliamo di musica, tra i viaggi più belli che ho fatto c’è sicuramente quello lungo la leggendaria Route 66, in particolare a Memphis e Clarksdale alla ricerca delle radici del blues di Muddy Waters. Sono stata negli Usa la prima volta negli anni ’60 quando la label americana Regalia Records cominciò a pubblicare le mie canzoni insieme a quelle di Mina, Peppino di Capri e di Maria Scicolone, sorella di Sophia Loren. Una sera eravamo diretti a Las Vegas e mi dissero di indossare un abito elegante senza spiegarmi il motivo e mi ritrovai a premiare Frank Sinatra jr al Caesar Palace. Avrei potuto avere una carriera in America grazie all’incontro col fondatore della Tamla Motown, Berry Gordy. Si accorse che in cima alle classifiche in Italia c’era una coppia inedita in tutto il mondo, lui nero e io bionda, e ci Invitò a Roma sul set del film Mahogany con Diana Ross e Antony Perkins. Berry mi aveva riconosciuto perché ero stata la prima in assoluto a fare una cover di Michael Jackson. Mandò una proposta di contratto di 5 anni dalla Tamla Motown alla Durium e il produttore per l’europa sarebbe stato George Martin dei Beatles che ci raggiunse a Stoccolma per ascoltarci all’Eurovision. Purtroppo col passare del tempo non si seppe più nula di quel contratto e il mio sogno americano svanì sul più bello. Non sono mai riuscita a far sapere a Berry Gordy che non era stata una mia decisione. Il sistema della musica cominciava a nausearmi, mi sentivo prigioniera.

E proprio in quegli anni hai incontrato uno spirito libero come Fabrizio De André

Uno spirito libero, fuori dalle logiche di mercato, che scriveva e cantava quello che voleva, quando voleva. È stato un passaggio del tutto naturale quello di allontanarmi dal mio mondo anche se ero all’apice del successo. Mi ricordo una sera a casa di Lucio Battisti con Mogol e Piero, un ex prete cantante sudamericano. Piero disse che Wess ed io eravamo molto popolari in Sudamerica, soprattutto in Brasile, che le nostre canzoni erano state inserite in film e telenovele. Mi ricordo di un episodio a Manaus nel cuore dell’Amazzonia, in quegli anni andavo spesso in Brasile. Stavo facendo uno shooting fotografico con Rosanna Mani per la copertina di “Tv Sorrisi e Canzoni”. Al check in aeroporto fui riconosciuta da un gruppo di persone che si sedettero sulle proprie valige e scherzosamente dissero che il volo non sarebbe partito se non avessi cantato per loro. Battisti stava lavorando ad “Anima Latina” e voleva organizzare un tour in Sudamerica con noi. Ricordo che quella sera commentò la storia che stava cominciando tra me e Fabrizio. È vero quello che si dice in giro? Me lo stavo domandando anche io. Tutti pensavano che sarebbe stata solo un’avventura. Battisti scommise su di noi e ha avuto ragione.

Le parole e la musica di De André sono diventate la tua mission con la Fondazione e saranno al centro di questo concerto evento del Light of Day dell’8 dicembre a Figino Serenza.

Sono molto curiosa di questo incontro con i musicisti che arriveranno dall’America. A volte mi chiedo: e se Dylan fosse nato in Italia? Fabrizio è stato straordinario anche in questo perché la lingua italiana è un limite oggettivo. Le sue canzoni però arrivano davvero ovunque. David Byrne ha dichiarato più volte che “Creuza de ma” è uno dei suoi dischi preferiti di sempre. Patti Smith in una scena del suo documentario accarezza il gatto sul divano e canticchia “Amore che vieni, amore che vai”.

E poi ci sono le traduzioni in inglese che possono dare una nuova vita alle sue canzoni. Da chi ti piacerebbe sentir cantare Fabrizio in inglese?

Leonard Cohen più di chiunque altro. E sarebbe dovuto succedere. Leonard mi aveva chiesto di spedirgli un po’ di dischi e di fare una selezione per scegliere il brano più adatto. Era il periodo di Natale così facemmo un bellissimo cesto con i dischi di De André insieme a panettone e spumante. Ci incontrammo anni dopo e mi chiese come mai non gli avessi mandato nulla. Poi scoppiò lo scandalo della sua segretaria: fu lei a far sparire tutto.

Se fossero Dylan o Springsteen a cantarlo?

Farebbero un ottimo lavoro. Anche Lour Reed conosceva bene le canzoni di Fabrzio e purtroppo non c’è più. Altri che potrebbero cantarlo sono Nick Cave, Jackson Browne, Paul Simon e, tra i nuovi, Jason Mraz e Paolo Nutini. Dylan chiese per ben due volte che fosse Fabrizio ad aprire i suoi concerti in Italia. La prima quando venne in tour con Santana, ma Fabrizio non si sentiva pronto e poi nel 1992 a Genova nell’anniversario dei 500 anni dalla scoperta dell’America di Colombo. Ma questa era una data che per Fabrizio non andava celebrata. Lui ha sempre fatto della coerenza la sua più grande virtù e scelse di stare ancora una volta dalla parte degli indiani come in “Fiume Sand Creek”.

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