Giocattolo e simbolo, il doppio dell’orso

L’orsacchiotto nasce negli Stati Uniti all’inizio del XX Secolo: da quel momento non è più uscito dalle nostre vite,invadendo letteratura, fumetti, cinema d’animazione

Viviamo in un mondo dove gli animali sembrano scomparsi. Non si tratta solo del fenomeno dell’estinzione che ogni anno coinvolge almeno una decina di specie. Si tratta invece della reale esperienza del mondo animale che ognuno di noi può fare nel corso della vita. Come è evidente, le campagne sono vuote, visto che gli allevamenti industriali sorgono in luoghi inaccessibili. I boschi sono percorsi da rare e furtive presenze. Se è vero che si sta verificando un progressivo adattamento di molte specie alla vita urbana, come spiega Menno Schilthuizen in “Darwin va in città”, (Raffaello Cortina editore), è altrettanto inconfutabile che riguarda forme viventi che sfuggono all’occhio umano come insetti o uccelli, con l’eccezione di qualche esemplare di volpe o di cinghiale.

Relitti arcaici

Insomma, la direzione, da qualche decennio, è tracciata: alla categoria “animali” iscriviamo soltanto i nostri pet, il cane e il gatto. I sapiens – accentuando all’opposto la propensione umanistica a non considerarsi animali – hanno vinto. E gli animali, nonostante l’animalismo, sono equiparati ad oggetti obsoleti, relitti di un mondo arcaico. Inevitabilmente, allora, da circa un secolo, tendiamo ad umanizzare gli animali, rendendoli antropomorfi nell’aspetto e nel comportamento. Ora, se cane e gatto hanno conosciuto questa sorte per via della contiguità con la nostra vita, risulta meno immediato capire perché lo stesso destino sia toccato all’orso.

Cosa c’è di più raro, infatti, nella nostra esperienza di asettici abitanti di spazi urbani, dell’incontro con un orso? Gli orsi oggi sono dei rari sopravvissuti, in Italia circa duecento, oltretutto poco disponibili a condividere spazi con la nostra specie. Eppure il Novecento, come dice il titolo di un ricchissimo libro di Roberto Franchini, è stato “Il secolo dell’orso” (Bompiani). L’orso è entrato nelle nostre vite e non ne è più uscito. In che modo? La strada è stata aperta nel 1902, quando negli Usa nasce “Teddy’s bear”. L’orso - il suo feticcio, nelle varie versioni che si succedono nel tempo - diventa in quel momento il compagno di generazioni di bambini occidentali, assumendo la fisionomia di personaggio della cultura di massa e di animale totemico, ovvero di animale guida. L’orso ha invaso la letteratura, il cinema d’animazione, i fumetti. Come mai?

La tradizione vuole che il presidente americano Theodore Roosvelt, durante una battuta di caccia, sia stato messo davanti all’unica preda che i suoi collaboratori erano riusciti a bloccare: un esemplare di giovane orso. Come viene raffigurato da una vignetta di Clifford Berryman pubblicata sul “Washington Post”, Roosvelt avrebbe risolutamente rifiutato di sparare a quel bersaglio inerme. Da qui nascerebbe la narrazione che è all’origine dell’orsetto giocattolo. Il forte impatto della scena avrebbe portato all’ideazione dei peluche sia i coniugi Mitchom, proprietari di una cartoleria a New York, sia la fabbrica tedesca Steiff. Comunque sia andata, uno è stato il segreto del successo. Quell’orso di pezza con gli occhi tondi è un cucciolo. E gli uomini, si sa, non resistono all’idea di curare con affetto chi è piccolo e indifeso. Quanto abbiamo imposto al vero cane, la sua metamorfosi in eterno bambino, è accaduto alla riproduzione dell’orsetto, divenuto simulacro di un’infanzia senza confini.

Se l’infantilizzazione è l’ultimo stadio, l’orso è però passato attraverso un lungo percorso di umanizzazione. Di più: in tutte le culture l’orso, che può talvolta diventare bipede, è stato visto visto come un umano trasformato temporaneamente in un plantigrado. L’orso è un “sottouomo”, dotato di forza bruta ed incontrollata, minacciosamente inesorabile, misantropo e inselvatichito, che deve essere ricondotto alla civiltà. È una somiglianza così accentuata, che, dall’Ottocento in avanti, ha spinto a pensare all’esistenza di un antico culto dell’orso, che accomunerebbe la civiltà nordamericana ed euroasiatica. Con un’ulteriore decisiva differenziazione: mentre il culto dell’orso (al maschile) è legato alla tradizione della caccia e della guerra, quello dell’orsa è connesso alla tradizione delle dee Madri, delle dee Matrone, delle nutrici. Come suggerisce Franchini, «il punto di contatto tra orso e orsa deve essere rintracciato nel significato di datore e datrice della vita». La femmina, secondo la tradizione, dà vita e forma ai piccoli appena nati leccandoli; il maschio è il regolatore del ciclo vitale, sia per la capacità (condivisa con l’orsa) di morire temporaneamente durante il letargo (in cui la leggenda vuole che si nutra succhiando il grasso delle proprie zampe), sia per l’abitudine, al risveglio, di rimettere in moto il ciclo della vita.

Per secoli l’orso è stato ammirato e temuto per la sua straordinaria ferocia, per la aggressività spropositata. È questo il motivo per cui i romani, anche se in subordine rispetto al leone e al leopardo, lo collocano nei loro spettacoli, violentissimi. Sono le “venationes”, simulazioni della caccia, che si concludono con l’uccisione della preda. Ma l’orso è anche destinato ad essere l’esecutore della condanna a morte, la “damnatio ad bestias”.

La sua brutalità diventa, col cristianesimo, segno dell’inclinazione al peccato. All’orso vengono attribuiti tutti i vizi: «brutalità, cattiveria, lubricità, sporcizia, ingordigia, pigrizia, collera». Ma nell’orso tutto è doppio e contraddittorio. È la stessa brutalità a conferirgli il ruolo di guerriero-orso, dotato di poteri magici.

Spirito guardiano

I capi barbari hanno spesso l’orso come spirito guardiano: Artù e Beowulf, eroi dell’epica medievale, nel nome rimandano direttamente all’orso (abbondanti sono i segni nella toponomastica, si pensi a Berna e Berlino, termini derivanti da Bär, orso in tedesco). Indizio del prestigio sono anche le insegne di città e di famiglie aristocratiche. Se però l’orso è il peccatore, se l’orso è la natura selvaggia, o tout court, il diavolo (come per primo sostiene Agostino), compito della Chiesa diventa quello di domarlo. Di qui la nascita di una narrazione che tende a replicarsi nei secoli, quella del santo che, come Martino, dopo aver subito un attacco dell’orso, lo sottomette al suo servizio.

È sempre a partire dal Medioevo, in particolare dagli ultimi anni del XII secolo - lo lasciano intuire i romanzi di Chrétien de Troyes - che l’orso comincia però a perdere il suo status nobiliare per trasformarsi nel simbolo della sconsideratezza del villano. Da qui ha inizio la rovinosa caduta descritta da Michel Pastoreau nell’oggi introvabile “L’orso. Storia di un re decaduto” (Einaudi), che fa del plantigrado un trastullo di massa, di cui rimane traccia nel Baloo disneyano. Ammaestrato dagli orsanti, l’animale goffo, ma anche scorbutico e solitario (si pensi all’espressione “essere un orso” ) viene fatto sfilare nelle piazze, dove balla e diverte il pubblico.

Oppure, fino al XIX secolo, è costretto a combattere contro i cani mastini, o contro i tori, soprattutto in Inghilterra dove, in età elisabettiana, il “bear baiting” (letteralmente il tormento dell’orso) sottrae spettatori al teatro. Oppure ancora viene esibito negli zoo, e, in precedenza, nei serragli signorili e nelle “fosse dell’orso” di cui si dotano numerose città europee dal Cinquecento in poi. Fino alla svolta dello scorso secolo, in cui, oltre alla sua trasformazione in giocattolo innocuo, si innesca però anche un altro processo. L’orso viene finalmente visto per quello che è. Un essere vivente e non solo un simbolo. Da qui ha inizio un’altra storia.

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