Gli inglesi in crisi dietro le violenze

L’ondata di assalti agli stranieri, o presunti tali, è stata giustamente punita come prevede la legge, ma bisogna chiedersi cosa spinga gente comune ad aggredire i “diversi”: l’identità perduta

Sono passati circa sessant’anni dal Race Relations Act, il primo di una serie di leggi che a partire dal 1965 proibiscono atti di discriminazione razziale in campo sociale ed economico (casa, scuola, impiego, ecc.). Queste leggi hanno reso il Regno Unito forse il Paese europeo più avanzato nella protezione delle proprie minoranze etniche, razziali e religiose.

A maggior ragione, quindi, quando a fine luglio e inizi agosto di quest’anno le violenze xenofobe e razziste hanno incendiato molte città inglesi, la sorpresa è stata enorme. Nessuno si sarebbe mai aspettato di vedere così tante persone in così tante città scendere in strada, attaccando sia la polizia sia chiunque sembrasse “straniero”. Auto prese d’assalto, con i suoi occupanti “stranieri” tirati fuori a forza, centri per rifugiati dati alle fiamme, passanti di colore o musulmani aggrediti in strada, sia verbalmente sia fisicamente. Sembrava di essere tornati di colpo negli anni Sessanta e Settanta, quando gli abusi e violenze razziali contro persone non bianche erano all’ordine del giorno, indirettamente fomentate anche da politici come Enoch Powell, prominente leader conservatore, che aveva parlato di un futuro in cui le strade del Regno sarebbe state innondate da “fiumi di sangue” se non si fosse posto un freno all’immigrazione dell’“uomo nero”.

Il pretesto

La causa scatenante delle violenze di quest’estate è stato l’accoltellamento a morte di tre bambine a Southport, nel nord dell’Inghilterra, da parte di un giovane cittadino inglese di origine africana, affetto da disturbi della persona. Sui social media, però, figure dell’estrema destra avevano diffuso la notizia, falsa, che l’assassino fosse invece un immigrato o rifugiato politico di fede musulmana. Anche quando la vera identità dell’assassino era stata rivelata, messaggi di odio razziale verso i musulmani e gli “immigrati” in genere, ovvero chiunque non avesse la pelle bianca, erano continuati a circolare sui canali social. Il governo laburista ha prontamente agito, trattando tutti questi incidenti come episodi criminali e adottando il pugno duro contro chiunque fosse coinvolto. Così ad oggi più di mille persone sono state arrestate e circa la metà portate in giudizio, con la conseguenza che adesso non si trovano più spazi nelle prigioni - già al collasso anche prima di questi eventi.

Quello che colpisce di questa ondata razzista è il fatto che ad essere coinvolti sono stati non solo aderenti dell’estrema destra capeggiata da Tommy Robinson, leader della smantellata English Defense League. Accanto ai manifestanti più violenti, inclusi molti giovani delle periferie urbane povere e degradate, spesso alla ricerca semplicemente di negozi da saccheggiare, c’è stata una moltitudine di persone “normali”. Uomini e donne di mezza età, alcuni con bambini al seguito, ed anche anziani (un pensionato di 69 anni, con fedina penale pulita, il più vecchio a finire dietro le sbarre).

Come si spiega questa ondata di razzismo e perché si è concentrata soprattutto in Inghilterra, lasciando Scozia e Galles immuni? Come detto, in molti hanno puntato il dito contro l’estrema destra e i social media, ma l’estensione delle rivolte e la loro composizione demografica invitano ad andare oltre questa semplice spiegazione. Guardare al contesto britannico, sia a quello politico recente, sia a quello storico, può aiutare a gettare maggiore luce.

Partiamo dal contesto recente e in particolare dalla campagna anti-immigrazione portata avanti da tutti i governi conservatori che si sono succeduti dal 2010 ad oggi. Non dimentichiamo che la stessa Brexit è stata prima di tutto un voto per fermare l’immigrazione, accusata per anni di essere fuori controllo dai tabloids britannici. ‘Stop the boats’ è diventato il mantra di tutti i governi tories e soprattutto di Nigel Farage, leader del UKIP party e oggi ReformUK, grande ammiratore di Enoch Powell, nonché artefice principale della Brexit. Questo clima anti-immigrazione facilmente può sconfinare in clima xenofobo, a danno di chiunque appaia in qualche modo “diverso” o “straniero”, che sia cittadino britannico o meno.

Questo clima tuttavia non spiega perché le rivolte si siano concentrate in Inghilterra. Scozia e Galles sono rimasti immuni, mentre in Nord Irlanda sono stati i lealisti protestanti, quelli più vicini alla corona britannica, a scendere in strada. Guardare al contesto storico può forse aiutare a far luce. Come è noto, il Regno Unito è di fatto un prodotto inglese. Fu la corona inglese ad estendere il suo potere prima sul resto delle isole britanniche e poi su gran parte del mondo. Ragion per cui oggi per un inglese i termini “british” and “english” sono sinonimi. Sebbene anche scozzesi, gallesi e irlandesi furono coinvolti nella gestione dell’Impero britannico, gli inglesi ne furono la forza trainante. Questo significa che la riduzione del ruolo della Gran Bretagna nel mondo è stata avvertita più acutamente dagli inglesi. Un sondaggio YouGov del 2018 sembra confermare questo punto. Mentre in Scozia, Galles e Irlanda del Nord, la maggioranza delle persone pensa che gli anni migliori siano davanti a sé, il contrario è vero in Inghilterra. La nostalgia per l’impero perduto sembra quindi avere maggior effetto tra gli inglesi, al punto che diversi studiosi affermano che questa nostalgia imperiale sia parte integrante dell’immaginario nazionale inglese.

Questioni etniche

Assieme a questa nostalgia, bisogna ricordare il fatto che l’Inghilterra è rimasta fuori dalla devoluzione di poteri all’interno del Regno Unito. Mentre Scozia, Galles e Irlanda del Nord hanno ciascuna il proprio governo e assemblea nazionale, non esiste un’amministrazione separata che si occupi esclusivamente degli affari inglesi. Questi continuano a essere governati dal potere centrale con sede a Londra - potere sentito come distante da molti inglesi che vivono soprattutto nel Nord dell’Inghilterra, dove le rivolte sono state maggiori.

Infine, è anche importante ricordare come lo stesso sondaggio YouGov del 2018 abbia rivelato che, a differenza delle altre nazioni del Regno, gli inglesi percepiscono la propria nazione come a maggioranza bianca. Solo un terzo tra loro infatti afferma che la diversità etnica, razziale e religiosa sia parte importante dell’identità inglese. Al contrario, sia la Scozia sia il Galles hanno narrazioni molto più inclusive delle proprie minoranze.

Sessant’anni di leggi anti-razziste non sembrano aver sortito un effetto profondo in una nazione, l’Inghilterra, in qualche modo in crisi di identità. Non più al centro del mondo come lo fu un tempo, l’Inghilterra si trova anche spaesata in un’Unione profondamente divisa da crescenti nazionalismi interni. Piuttosto che congedare le rivolte come semplici atti criminali da parte dell’estrema destra, come ha fatto il primo ministro Kier Starmer, il suo governo e la società tutta farebbero meglio ad aprire un dibattito su cosa oggi voglia dire essere “inglese” e quale sia il posto dell’Inghilterra in un Regno Unito in continua devoluzione.

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