Guerra economica, la lunga escalation

Nel 1989 è cominciata una nuova fase della competizione globale: la geoeconomia ha scalzato la geopolitica e ora siamo a un passo dal rischio che si torni indietro all’uso delle armi

È la fine del 1989. Mentre il clamore geopolitico mondiale non ha voce che per il crollo del muro di Berlino e la fine dell’impero sovietico, tra le strade di New York, con meno clamore, ma non con meno rilevanza, si sta materializzando un evento di grande portata per gli Stati Uniti. Alla fine di quell’anno, la Mitsubishi Estate, una delle principali società immobiliari giapponesi, acquista l’80% dell’iconico Rockefeller Center per 1,4 miliardi di dollari. A questa acquisizione, ne seguirono altre più o meno prestigiose, inclusa l’acquisizione parziale dell’Empire State Building, sempre per mano giapponese. Circa cinquant’anni dopo Pearl Harbour, l’America si trova così di nuovo sotto attacco da parte del Giappone. Questa volta, però, l’attacco non è di natura militare, ma economico-finanziario.

Proprio quando la fine della Guerra Fredda segna la fine dello scontro con l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti si trovano dunque a dover affrontare un nuovo competitor. Non è un caso che due anni prima, nel 1987, il celebre storico delle relazioni internazionali, Paul Kennedy, pubblicava il suo famoso libro “The Rise and Fall of the Great Powers”, in cui appunto anticipava l’ascesa del Giappone a nuova potenza globale (e il declino della potenza americana).

Tesi contrapposte

È in questo contesto che uno studioso rumeno di origine ebraiche, naturalizzato americano, pubblica nel 1990, il suo articolo “From Geopolitics to Geo-Economics: Logic of Conflict, Grammar of Commerce”. La rivista dove l’articolo esce è “The National Interest”, rivista della intelligencija conservatrice americana, sulle cui pagine, solo l’anno precedente, il noto politologo Francis Fukuyama aveva proclamato “The End of History”, ovvero la vittoria dell’Occidente e del suo modello di democrazia liberale sul resto del mondo. Se Fukuyama anticipa un futuro dove il modello capitalista, se adottato da tutte le nazioni, porterebbe ad un futuro di pace, Luttwak propone esattamente un futuro opposto. Il sottotitolo del suo articolo non potrebbe essere più esplicito. Prendendo spunto dalla famosa massima del generale e teorico militare prussiano Carl Von Clausewitz («la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi»), Luttwak afferma che la geoeconomia è «un miscuglio di logica del conflitto con metodi del commercio – o, come avrebbe scritto Clausewitz, la logica della guerra nella grammatica del commercio».

Lotta perenne

In altre parole, finita la Guerra Fredda, alla competizione geopolitica e militare del passato Luttwak sostituisce una nuova competizione globale guidata dagli interessi geo-economici degli stati. All’arma militare subentra l’arma economica (dazi commerciali in primis), considerata più efficace in un mondo reso globale dal fattore tecnologico e dai flussi economico-finanziari. Questa nuova concezione geo-economica rimane comunque intrisa di realismo politico (Realpolitik), per cui il sistema delle relazioni internazionali continua ad essere caratterizzato da una lotta perenne tra stati per l’affermazione dei loro interessi nazionali. Lo strumento militare (geostrategia) viene adesso semplicemente messo in disparte a favore dello strumento commerciale (geoeconomia), in una rinnovata logica neo-mercantilista.

Suona familiare? “Tariff is the most beautiful world… Tariffs are about making America rich again and making America great again”. Queste le parole di Donald Trump, pronunciate enfaticamente solo alcuni giorni fa durante il suo discorso-comizio di fronte al Congresso. È singolare che oggi sia proprio un (ex) palazzinaro newyorchese (ritorniamo a quella New York dove tutto era iniziato alla fine degli anni Ottanta) ad abbracciare il nuovo mantra geoeconomico. Nessuno più di Trump, infatti, sta oggi facendo uso dell’arma commerciale per imporre i propri interessi nazionali. A parole, Trump sembra detestare la guerra (almeno quella condotta dalla Russia contro l’Ucraina – assai meno quella di Israele contro Hamas) e usa appunto i dazi doganali per, a suo dire, pacificare chi oggi è coinvolto in conflitti armati.

Ma quale ruolo gioca la geopolitica in tutto questo? È forse stata obliterata dalla rinnovata logica geo-economica? A vederci chiaro, già all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, è il generale Carlo Jean, consigliere militare dell’allora Presidente della Repubblica Italiana Francesco Cossiga ed autore nel 1995 del primo libro di geopolitica uscito nel secondo dopoguerra. Con l’amico economista Paolo Savona, Jean è tra i primi ad apprezzare l’articolo di Luttwak e a divulgare la geoeconomia in Italia. Assieme a Savona scrive, sempre nel 1995, il libro “Geoeconomia. Il dominio dello spazio economico” e propone di creare una “Scuola di Guerra Geoeconomica”, per poter educare il personale dello Stato italiano al nuovo strumento di conflitto globale.

Nonostante questo, però, Jean è consapevole che la geoeconomia non ha esistenza a sè, ma rimane uno strumento subordinato alla geopolitica. Il commercio, come l’arma militare, sono mezzi volti a raggiungere obiettivi geopolitici. In altre parole, Jean non vede nella geoeconomia una disciplina autonoma, sostitutiva, nel mondo globalizzato, della geopolitica, bensì uno strumento di quest’ultima, pur con caratteristiche interne proprie, per la realizzazione degli interessi nazionali dello stato. La geopolitica, intesa come lente attraverso cui guardare ai propri interessi nazionali e a giustificare azioni nel mondo legate a questi interessi, continua a guidare sia l’arma commerciale, sia quella militare.

Il caso Trump

Trump oggi si serve spavaldamente della geoeconomia “for making America rich and great again”, così come per estrarre concessioni, non solo di natura geoeconomica, ad altri stati. Ma proprio per la natura offensiva della geoeconomia, il suo uso genera uno scenario di conflittualità generalizzata. In questo contesto, “the logic of conflict” basata sulla “grammar of commerce” rischia facilmente di trasformarsi in aperto conflitto militare. Il pericolo dietro l’angolo è allora quello di tornare ad una geopolitica fatta di geostrategia, riarmamento e truppe al fronte.

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