I primi ottocento anni della poesia italiana

Oltre all’utilizzo della lingua volgare umbra, una novità espressiva sorprendente caratterizza il “Cantico delle creature” scritto da Francesco d’Assisi nel 1224. Un connubio tra registro colto e accenti popolari

Siamo agli albori della letteratura italiana e della nostra memoria scolastica. Ma è necessario tornare al testo fondamentale, il “Cantico delle Creature”, noto anche come “Cantico di Frate sole e Sorella Luna” o “Laudes creaturarum”. E per alcune chiare ragioni, che ne fanno un’opera esemplare.

Naturalmente per la lingua, trattandosi del primo documento della nostra poesia in volgare, ma soprattutto perché si tratta di una lingua sempre coinvolgente per la ruvida natura del suo porsi e per quanto, della stessa mostra ancora un movimento, in fieri, come un antefatto autonomo rispetto agli stessi testi del Medioevo in cui la parola verrà già ad acquistare una sua nobilissima identità letteraria.

Tra l’altro, ci ricordiamo che Angelo Branduardi ne aveva proposto una sua versione cantata. Ma con tutto il rispetto è decisamente consigliabile tornare ai versi del “Cantico” sulla pagina, come sempre per la poesia.

Rileggere il poemetto di San Francesco ci lascia sempre attratti e sorpresi per la semplicità diretta del suo messaggio, della sua chiarezza nell’adesione all’esserci secondo le linee di un religioso e ispirato sentire. Le cronache ci dicono che fu scritto ottocento anni fa, due anni prima della morte del suo autore, vissuto tra il 1181/82 e il 1226, e dopo una notte quanto mai tormentata.

Lingua e struttura

La parola di questa grande figura storica, in quello che è il suo solo testo nella nostra lingua, è in volgare umbro, una via di mezzo tra l’umbro-toscano e l’umbro-abruzzese, non priva certo ancora di alcuni latinismi. La struttura formale è sostanzialmente quella di una prosa assonanzata, forse riferibile a componimenti di cui abbiamo perduto traccia. Ne scaturisce un testo di sorprendente chiarezza, di immediato coinvolgimento del lettore, magari anche per il positivo attrito che viene offerto dalla fisionomia arcaica di certe parole.

Intonazione biblica

L’andamento dei versi, la loro musica particolare, acquistano una elasticità che si impone subito anche oggi, quasi come una novità espressiva sorprendente. Certo, la cosa dipende dai possibili modelli di riferimento, dall’esigenza nel loro autore di utilizzare una forma di intonazione biblica.

L’avvio si mostra con gli espliciti caratteri di una devozione religiosa in forma di preghiera, di lode a Dio, ma subito si impone quella piena e semplice apertura nel segno di un’adesione del soggetto al fisico reale circostante e dunque alla presenza della sublime luce di quel “frate sole”, che è “bellu e radiante cum grande splendore”, e che, più di ogni altro elemento, rappresenta quell’“Altissimu” del quale “porta significatione”. E qui già si manifesta persuasivo e in fondo sorprendente, quel tratto popolaresco che percorre, rendendolo in qualche modo unico, l’intero cantico. Infatti l’autore passa al volgare locale per meglio arrivare con il suo messaggio poetico agli esseri umani che lo circondano. E in questo non possiamo non ricordare analoghi episodi letterari dell’epoca successiva, come quello dei cosiddetti precursori di Dante, e dunque in primo luogo Bonvesin da la Riva, ben più noto per i suoi scritti in latino, ma autore del “Libro delle tre scritture”, testo in volgare milanese medievale, e come Uguccione da Lodi, Pietro da Barsegapé o Giacomo da Verona.

Ma l’esplorazione di Francesco non si limita a celebrare il sole, ma esprime la sua umana lode anche per la luce, come ben vediamo, per la luna e le stelle. E qui, andando oltre devozione e preghiera, siamo attratti da quella piena partecipazione del poeta che non è in fondo - almeno per come viene espressa in questi versi - diversa da quella di un normale, comune lettore. Tanto è vero che le sue parole attraversano i secoli nella meraviglia della loro affabilità e trasparenza senza ravvisabili artifici.

Ma poi il poeta si muove ancora oltre, nelle varie componenti fisiche del mondo naturale e dunque nel gioco dei contrasti che ne compongono il formidabile teatro, che è il più alto e impeccabile specchio della complessità dialettica del reale. Eccoci allora a “frate vento”, a “sor’aqua” e “frate focu” e “sora nostra madre terra”, fino all’accettazione più completa di quanto ci è dato e dunque del nostro destino con “sora nostra morte corporale, / da la quale nullo homo vivente pò scappare”, ma che, ovviamente, per chi crede, aprirà a un futuro, diverso destino.

La bellezza del testo si realizza nella limpida proposta del suo messaggio e dunque, come dicevo, nella sua sostanziale adesione al senso dell’umano esserci, che sembra per noi oggi porsi anche oltre la stessa, qui comunque essenziale e autenticissima, dimensione religiosa, che percorre e anima la tensione spirituale di Francesco, come viva accettazione positiva del nostro vivere nel mondo.

Proseguendo nella nostra rilettura, troviamo l’opportunità di un confronto molto stimolante con la parola. E qui, quello al quale potremmo muoverci in una sorta di gioco letterario e linguistico, si colora dello stimolante confronto con il volto mutato di certe parole, appunto, e non solo certo per la grafia. Basterebbe riferirsi a quel “mentovare” (e cioè nominare, menzionare, rammentare) poi a “clarite et pretiose”, “ennallumini”, “iocundo et robustoso” e così via. E qui la poesia ci apre a una importante considerazione, e cioè al cammino affascinante della lingua nel corso dei secoli, un cammino che arriva anche, talvolta, persino al mutare dello stesso significato e abituale uso. E la grande letteratura è di questo fenomeno il più alto esempio.

Ma va da sé che la vitalità poetica del “Cantico delle Creature” vada ben oltre il suo proporsi come primo documento della nostra poesia e come attestato di una limpida tensione religiosa. Si muove infatti nell’originale e sapiente incontro tra verticalità dell’ispirazione e semplicità partecipe nell’osservazione del reale fisico in cui siamo immersi. Si realizza tra nobile registro colto, insomma, e capacità di aderire a un modo di intendere ed esprimersi tipico anche di modalità popolari.

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