Il consumismo? Tutta colpa nostra

Cento anni fa il primo accordo tra aziende per produrre beni che non durano nel tempo. Ma più dell’“obsolescenza programmata” a influire sul mercato sono i nostri desideri

Nel dicembre del 1924, esattamente cent’anni fa, i principali produttori di lampadine a incandescenza sottoscrissero un accordo (il “cartello Phoebus”) volto a organizzare la loro produzione e, in particolare, ad accorciare la vita dei prodotti. Le imprese giustificarono quella scelta, che ridusse la durata di una lampadina da 2500 ore a sole 1000, sostenendo che sulla base della tecnologia del tempo una lampada che fosse durata di più avrebbe operato in maniera poco efficiente, a danno del consumatore. L’accusa, invece, fu che tutto ciò fosse stato fatto solo per aumentare le vendite.

Quel cartello è importante molto al di là del caso specifico, dato che è stato spesso evocato da quanti condannano l’economia libera sostenendo che finisce fatalmente per generare abusi, sprechi e altre conseguenze negative. A partire da simili analisi si arriva facilmente a sostenere che la politica deve controllare le imprese al fine di evitare che assumano tali comportamenti.

Strategie

Negli studi di management la strategia usata dal cartello dei produttori di lampadine è chiamata della “obsolescenza programmata” (in inglese, “planned obsolescence”). Questa teoria afferma che in talune circostanze le imprese darebbero vita ad accordi anticoncorrenziali per produrre beni che non durano nel tempo. Se nel mondo vi sono otto aziende che producono lampadine, perché dovrebbero fabbricare prodotti che funzionano anni, quando un loro rapido consumo ci obbliga ad acquistare sempre nuovi prodotti?

La teoria sembra stare in piedi, ma in verità ha parecchi punti deboli.Innanzitutto, questo schema basato sul cartello può funzionare a una condizione: che il mercato non sia aperto e che quindi i pochi produttori attivi sul mercato possano produrre male senza conseguenze. Se invece si è in un ordine di mercato, ogni cartello apre la strada a concorrenti molto forti. Cosa cercano in effetti i capitali? Esattamente quei settori in cui c’è poca competizione e i beni venduti sono scadenti. In quella situazione iniziare a produrre prodotti migliori è facile e può generare enormi profitti.

Alla luce di questo, è possibile che in talune situazioni il consumatore sia stato danneggiato da cartelli che hanno ridotto la qualità del servizio (nel caso specifico, la durata del prodotto venduto) e in tal modo hanno costretto ad acquistare due o tre volte invece che una sola. Tutto ciò, però, non è tanto da addebitare al mercato, ma al suo opposto: è infatti la regolazione che riduce l’accessibilità a un mercato. Un caso classico è quello bancario, dove è difficilissimo avviare una libera impresa dato che in nome della protezione del risparmiatore (a parole) e per difendere i soggetti già esistenti (nei fatti) vi sono alte barriere all’ingresso.

C’è poi un’altra questione, non di minore importanza.

Tutto lo schema delle critiche indirizzate all’economia libera da quanti insistono sulla obsolescenza programmata poggia su un dato irrealistico. Senza nemmeno accorgersene più di tanto, quanti vogliono limitare la libertà di scelta dei produttori e dei consumatori usando la teoria della “obsolescenza programmata” guardano ai mercati come a realtà rigide, stabili, che non mutano nel tempo. In fondo, usavamo il telefono cinquant’anni fa e l’usiamo ancora oggi. Il problema è che, nell’arco di cinque decenni, usiamo lo stesso termine per indicare oggetti molto diversi e che ci offrono servizi non paragonabili. Chi negli anni Settanta avesse prodotto telefoni fissi destinati a durare un secolo avrebbe senza dubbio sbagliato.

Come ha spiegato molto bene Walter Block in uno scritto del 2005, le imprese non realizzano beni a durata illimitata “perché i consumatori preferiscono il miglioramento alla permanenza, la disponibilità alla longevità, la sostituibilità alla riparabilità, il movimento e il cambiamento alla durata. Non si tratta di uno spreco perché non esiste uno standard eterno con cui misurare e valutare la razionalità economica dell’uso delle risorse nella società”.

Il frigorifero di casa

Quando lessi per la prima volta questo passo mi venne in mente mio padre e un vecchissimo frigorifero Bosch che avevamo in cucina, acquistato negli anni Sessanta, che dopo decenni continuava a funzionare e che – a quel punto – bisogna gettare senza aspettare che si fermasse. Perché? Per ragioni di estetica, da un lato (era anche enorme e inadeguato alle dimensioni di un appartamento), e per ragioni di qualità, dall’altro.

Come rilevò George Bernard Shaw, è più in linea con l’essere umano rinunciare a ciò che è necessario che non a ciò che è superfluo; in altre parole, quello che è chiamato “consumismo” poggia sul fatto che il mondo si trasforma di continuo ed è esposto continuamente al mutare dei nostri desideri. Se lo “smartphone” ha soppiantato il telefono tradizionale, questo non discende dalla malvagità di esosi capitalisti dominati dalla sete di profitto.

In fin dei conti, quella della “senescenza programmata” è una delle numerose teorie volte a screditare l’ordine economico basato sul diritto (sul rispetto della proprietà privata e dell’autonomia negoziale), ma tutte queste elaborazioni concettuali finiscono prima o poi per suggerire soluzioni autoritarie: e non soltanto esigono la dissoluzione dell’ordine giuridico, soppiantato da regolazione e interventismo, ma intralciano pure il normale e spontaneo svilupparsi di una vita economica in grado di fare il possibile per rispondere davvero alle esigenze di tutti noi.

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