Il crollo dell’Urss per un “raffreddore”

Quarant’anni fa la malattia mortale di Andropov coperta con un comunicato che parlava di un “leggero raffreddamento” . Un ritratto dell’ultimo leninista che deluse le attese mondiali

Passato involontariamente alla Storia per il grottesco comunicato ufficiale su un suo presunto “leggero raffreddore” che era invece una malattia terminale tenuta nascosta per ragion di Stato, Yuri Andropov non è mai stato davvero capito in Occidente. Quando nel novembre 1982, all’età di 68 anni, divenne il capo supremo del partito comunista sovietico (e automaticamente leader dell’URSS) al posto del senescente e appena defunto Leonid Brezhnev, fu salutato dai “cremlinologi” dell’epoca come un uomo che portava una ventata d’aria fresca, se non addirittura di gioventù, nei palazzi del potere di Mosca.

Bastava poco per coltivare una simile illusione: Brezhnev era da anni una mummia irrigidita dall’arteriosclerosi, incapace di lavorare per più di un paio di ore al giorno e mantenuto al suo posto come garante di facciata di un gruppo di potere basato sul cosiddetto complesso militare-industriale. E quando sul palco della piazza Rossa a Mosca comparivano, in occasione delle feste solenni del regime, i membri del Politburo in blocco, il colpo d’occhio era imbarazzante: dall’“ideologo” Mikhail Suslov con gli spessi occhiali da semicieco al generalissimo Dmitry Ustinov dal petto coperto di medaglie, dall’eterno ministro degli Esteri Andrei Gromiko all’abile manovratore di palazzo Konstantin Cernienko era uno schieramento di settuagenari malfermi e di ottuagenari ansanti che a malapena riuscivano ad alzare un braccio per rispondere al saluto della folla convocata per osannarli in un tripudio di bandiere rosse nel gelo moscovita. Andropov, al loro confronto, sembrava giovane e in forze.

Analisti superficiali

Se poi si aggiunge, complice l’opacità di un regime ossessionato dalla segretezza, lo sforzo disperato di analisti e giornalisti occidentali di scovare qualcosa di interessante e magari - nel contesto inquietante della guerra fredda - di incoraggiante al suo riguardo, l’ingannevole quadro era presto completato. Invece di insistere sui quindici anni di Yuri Andropov al vertice del KGB e sul suo ruolo mortifero quale ambasciatore a Budapest nella repressione della rivolta ungherese del 1956, si preferiva ricordare che il nuovo capo dell’URSS preferiva il cognac francese a quello armeno, che aveva un aspetto meno rozzo di tanti suoi altri colleghi o che una volta aveva suggerito di restituire al culto una chiesa di Mosca che era stata trasformata in magazzino da Stalin negli anni Trenta. Ma la sua reputazione di “cekista illuminato” era costruita sul nulla come quella della sua buona salute: Andropov era un leninista di ferro e lo dimostrava con i fatti.

Un solo anno al vertice

In quel 1983 - quarant’anni fa - che fu il suo unico anno al vertice dell’Unione Sovietica prima che una grave malattia renale lo conducesse alla tomba, concentrò i suoi sforzi su un irrigidimento della disciplina nel partito comunista e nella società e su un ultimo tentativo di acquisire all’URSS l’egemonia in Europa. Nessuno dei due obiettivi fu conseguito: all’interno, Andropov non comprendeva che corruzione dilagante e gravi inefficenze non potevano essere corretti per decreto, poiché erano difetti connaturati a un sistema chiuso in cui più che la qualità degli uomini contava la loro fedeltà assoluta ai vertici. All’esterno, invece, fallì il suo tentativo di impedire agli Stati Uniti – attraverso una campagna di propaganda “per la pace” che puntava, con qualche successo in verità, ad alimentare in Occidente il terrore della catastrofe atomica – di schierare in Europa i loro nuovi missili con testata nucleare. Ronald Reagan non solo ottenne da quattro Paesi Nato (tra cui l’Italia, che mise a disposizione la base siciliana di Comiso) l’autorizzazione a installare i missili Pershing e Cruise per compensare la minaccia rappresentata dagli Ss-20 già schierati dai sovietici, ma capì che era giunta l’ora di lanciare una corsa al riarmo che avrebbe messo in ginocchio la debole economia dei rivali.

Figura tragica e simbolica del declino finale dell’URSS, Yuri Andropov scomparve alla vista del pubblico già nell’agosto dell’83. Un grave malore patito durante le vacanze in Crimea (c’è sempre di mezzo la Crimea nei guai della Russia...) lo costrinse a un intervento chirurgico e a una convalescenza che non sfociò in guarigione. Fedele al suo ruolo di “Papa rosso” che nella tradizione bolscevica non poteva dimettersi, continuò a lavorare dal suo letto nella dacia di Kuntsevo (quella dove era morto Stalin trent’anni prima e che oggi ospita Vladimir Putin), con sempre più rari e segreti blitz al Cremlino da cui ritornava provatissimo. Il 1° settembre dovette lasciar gestire al Politburo, guidato da Cernienko ansante per l’enfisema ma sempre affamato di potere, la patata bollente del volo civile sudcoreano con 269 persone a bordo abbattuto da un missile sovietico.

Nessuno, in patria e all’estero, udiva più la sua voce, e il 6 novembre il membro del Politburo Leonid Zamyatin credette opportuno tranquillizzare il mondo raccontando l’assurda bugia del “raffreddore”. Yuri Andropov era ormai da due mesi in un letto d’ospedale, costretto alla dialisi e condannato a una fine imminente. Morì il 9 febbraio dell’84: poche ore prima qualcuno aveva firmato a suo nome la sua ultima lettera, indirizzata al leader comunista giapponese Miamoto. Il suo posto al Cremlino sarebbe stato preso da un Konstantin Cernienko che, visibilmente minato, resistette penosamente un anno e morendo consegnò nel marzo 1985 al giovane riformista Mikhail Gorbaciov un’Unione Sovietica ormai impossibile da resuscitare.

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