Il valore dell’infanzia nei vangeli

Il tradizionale intervento del Cardinal Ravasi apre il numero natalizio. Un ampio approfondimento sui bambini secondo le sacre scritture, a partire proprio dai testi “dell’infanzia” redatti dai santi Matteo e Luca

Gianfranco Ravasi

È ormai una tradizione affacciarmi a Natale sulle pagine dell’“Ordine”, su invito cordiale del curatore.

Quest’anno il tema sarebbe stato scontato, quello del Giubileo. Esso affonda le sue radici già nell’Antico Testamento, in particolare nel c. 25 del terzo libro della Bibbia, il “Levitico”; passa attraverso le parole di Gesù durante una sua “predica” nella sinagoga del suo villaggio, Nazaret (Luca 4, 16-19) e approda nella storia della cristianità, come è noto, con papa Bonifacio VIII nel 1300.

Si inaugurava, così, un filo storico che giunge al 2025, il XXVII Giubileo universale (a parte è il centinaio di Giubilei straordinari in date distinte dalle cadenze venticinquennali).

Il bimbo profugo di nome Gesù

Forse avremo occasione di sviluppare durante l’attuale Anno santo questo tema che ha un valore non solo personale e rituale, ma anche sociale e comunitario. Ora, invece, nello spirito natalizio, proponiamo un ampio ritratto testuale sui bambini secondo i Vangeli, a partire proprio dal protagonista, il Bambino Gesù.

A dominare il Nuovo Testamento riguardo al nostro tema sono innanzitutto i cosiddetti «Vangeli dell’infanzia», i due capitoli iniziali sia del Vangelo di Matteo sia di Luca. Essi accompagnano la vita del piccolo Gesù dall’inizio, nella sua generazione annunciata a Maria e a Giuseppe, fino all’ingresso nella sua maggiore età.

In quelle pagine – che sono state oggetto di un numero enorme di commenti e interpretazioni, che sono state accompagnate dalla libera creatività dei Vangeli apocrifi e che hanno creato un immenso patrimonio artistico – le narrazioni dei vari eventi intrecciano storia e teologia.

Suggeriamo di rileggere o riascoltare nella liturgia quelle pagine per scoprirne la dimensione religiosa.

Significative, infatti, sono le apparizioni dei messaggeri divini, gli angeli, che guidano le vicende di quella famigliola e ne interpretano il significato profondo (Matteo 1,20; 2,13.19; Luca 1,11.26; 2,9-13). Analoga funzione è espletata dalle molteplici citazioni bibliche (Matteo 1,23; 2,6.15.18). Accanto al piccolo Gesù si accosta nel Vangelo di Luca (cap. 1) anche la figura del suo precursore, Giovanni Battista, nella sua infanzia e crescita.

Data la costante lettura di queste narrazioni proposta dalla tradizione, dalla liturgia e dalla catechesi, è sufficiente solo evocare alcuni atti fondamentali che coinvolgono il neonato Gesù, e riservare uno spazio specifico solo al momento a cui accede ai dodici anni, il probabile passaggio alla maggiore età. Innanzitutto la sua nascita, dopo un pesante viaggio di sua madre, che l’aveva in grembo, da Nazaret in Galilea fino a Betlemme in Giudea: nell’alloggio normale non c’è possibilità di ospitalità e il Bambino vede la luce nello spazio domestico secondario e modesto ove ci si riparava con gli animali in caso di necessità o intemperie (Luca 2,6).

Sul neonato irrompe subito la bufera della violenza del potere assoluto di Erode con la strage dei bambini betlemiti, un dramma cupo che si ripeterà in altre forme in tutta la storia. In conseguenza si abbatte sul neonato Gesù e suoi genitori l’incubo dell’essere profughi, migrando fuori dalla loro terra in un paese straniero, come sperimentano oggi tante persone (Matteo 2,13-18).

Prima, però, si compie un evento sorprendente: i Magi che, dal lontano Oriente, guidati da un segno della natura e dalla Parola di Dio giungono fino a quella modesta famiglia: «Videro il Bambino con Maria sua madre, si prostrarono e l’adorarono» (Matteo 2,11). È quasi la prefigurazione di quanto quel Bambino, divenuto adulto e maestro, proclamerà: «Molti verranno dall’Oriente e dall’Occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno di Dio» (Matteo 8,12).

Attraverso questi racconti si intuisce, così, anche la vicenda futura di quel Bambino: su di lui si proietta già l’ombra della croce e la gloria pasquale. Il suo mistero è riconosciuto dalle persone semplici come i pastori, emarginati nella società di allora, gli ultimi che diventano primi del Regno di Dio (Luca 2,8-20), e da quelle giuste e fedeli dal cuore aperto, come Simeone e Anna nel tempio di Gerusalemme (Luca 2,22-38).

L’esistenza del piccolo Gesù prosegue, poi, nella quotidianità di un villaggio ignorato nell’Antico Testamento, Nazaret, esercitando la professione di falegname come suo padre legale, Giuseppe. Intanto «il Bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza e la grazia di Dio era su di lui» (Luca 2,40).

Gesù dodicenne

La scena che conclude i Vangeli dell’infanzia di Gesù lo rappresentano ormai alle soglie della maggiore età secondo quel contesto sociale: egli ha dodici anni e l’episodio, narrato da Luca (2,41-51), è sorprendente. Come è noto, al termine di un pellegrinaggio della sua famiglia a Gerusalemme egli rimane nella città santa e si introduce nel tempio mettendosi a dialogare coi dottori della Legge. La ricerca affannosa da parte di Maria e Giuseppe e la pena e il tormento della madre sono ben espressi dalla sua frase di rimprovero: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo» (2,48).

In essa – sia pure a livello ben diverso – si riflette l’esperienza di tanti genitori di fronte ai loro figli che si avviano a sorpresa verso orizzonti inattesi e spesso ignoti. La risposta di Gesù mostra che egli è ormai nella pienezza della sua personalità e, quindi, oltre la fase dell’essere un minore, e che è consapevole della sua missione superiore: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (2,49). Egli rivendica ormai – davanti ai genitori perplessi e sconcertati – la sua coscienza di non essere più solo un “figlio” ma il “Figlio” per eccellenza, travalicando i rapporti della sua famiglia umana.

Nonostante questo, egli continua per un lungo tratto la sua vita terrena nella quotidianità del villaggio in cui risiedono i suoi genitori, mentre si prepara alla futura missione affidatagli dal Padre divino: «Scese dunque con loro e venne a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Luca 2,51-52).

Gesù tra i bambini

Cristo nella sua vita pubblica camminava per le strade, parlava spesso da una barca alla folla raccolta sulla spiaggia di una insenatura del lago di Tiberiade, si inoltrava nei villaggi e sostava sulle piazze.

Gli accadeva, così, di avere nell’uditorio, mescolati tra la gente, anche i bambini; anzi, talora si fermava ad osservare i loro giochi. Un episodio suggestivo, da lui trasformato in una sorta di parabola per gli adulti che lo ascoltavano, è narrato sia da Matteo (11,16-19), sia da Luca a cui attingiamo le parole di Gesù: «A chi dunque posso paragonare la gente di questa generazione? A chi è simile? È simile a bambini che, seduti in piazza, gridano gli uni agli altri così: “Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!”» (7, 31-32).

Quei bambini litigiosi non s’accordavano sul gioco: alcuni di loro avrebbero voluto mimare una festa di nozze con balli, canti e suoni, altri desideravano invece rappresentare un funerale. In tal modo, non si divertivano, lasciando scorrere il tempo, così come gli adulti che non avevano scelto né il messaggio gioioso di Gesù né quello severo del Battista. Ma l’episodio più importante che vede come protagonista i bambini è in una deliziosa scenetta riferita da tutti i Vangeli sinottici (Matteo 19, 13-15; Marco 10,13-16; Luca 18,15-17).

Siamo ancora su una piazza di villaggio, Gesù sta passando ma viene bloccato probabilmente da alcune madri che presentano i loro piccoli perché li accarezzi e li benedica. Si può immaginare il frastuono e il movimento che coinvolge il Maestro accompagnato dai suoi discepoli. Sono costoro a reagire contro quel chiasso e quella confusione: gli evangelisti notano che si misero a “rimproverare” quei bambini e usano il verbo greco “epitimáo”, che nei Vangeli è applicato a Cristo quando fa tacere i demoni. L’allusione è forse al fracasso “indiavolato” che faceva quella piccola folla.

Come sappiamo, nella società di allora i bambini non erano registrati se non dopo la maggiore età, attorno ai dodici anni (oggi ai tredici), e solo nel caso dei maschietti. Gesù, rompendo la tradizione che considera il bimbo solo come un soggetto da educare, ne fa invece un soggetto che educa gli stessi adulti. Infatti, dopo aver protestato contro lo zelo dei discepoli – «Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite» – pronuncia una dichiarazione solenne che li trasforma appunto in maestri della fede. Dice infatti: «A chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come l’accoglie un bambino, non entrerà in esso» (Luca 18,16-17).

Il tema è ripreso con maggiore intensità e con un alto valore simbolico assegnato al bambino in una scena parallela, riferita ugualmente da tutti i Vangeli sinottici.

Diventare come i bambini

Ecco la relazione di Matteo. «In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: “Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?”. Allora chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: “In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me”» (18,1-5).

Il messaggio luminoso di questo momento vissuto da Cristo coi bambini era già idealmente sintetizzato in una sua celebre preghiera innica: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose hai sapienti e hai dotti e le hai rilevate ai piccoli» (Matteo 11,25). Nel brano sopra citato, di «piccoli» si parla anche subito dopo, ma con un duro monito di Gesù: «Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messo al collo una macina di mulino e sia gettato in mare» (18,6).

Questa sorta di maledizione, espressa con un’immagine violenta desunta dalla società in cui Gesù viveva, è stata spesso applicata all’infamia della pedofilia. Ferma restando la condanna di questa vergogna, gli studiosi – a causa dei termini greci usati dai Vangeli – pensano, però, che si tratti dei «piccoli che credono» ossia dei fratelli deboli nella fede da non scandalizzare e mettere in crisi.

In questa luce, tuttavia, il testo può essere applicato anche allo scandalo che gli adulti possono generare nei confronti della fede semplice e della fiducia spontanea dei bambini.

«La bambina non è morta
ma dorme!»

A suggello del nostro itinerario nel mondo dei bambini della Bibbia poniamo una scena che potremmo definire una miniatura pasquale, perché si apre con una morte ma ha come meta un “risveglio-risurrezione”. È la vicenda della figlia dodicenne di Giairo, capo della sinagoga di Cafarnao, una storia narrata dai tre Vangeli sinottici. Noi seguiremo il racconto di Marco (5,21-43). La piccola è moribonda e l’unica speranza del padre è affidarsi al rabbì di Nazaret, Gesù.

L’implorazione di Giairo è, infatti, piena di sofferenza ma anche di fiducia, come accadeva in quel momento e come si ripete ancora oggi per tutti i genitori che hanno i loro bambini gravemente malati. «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva!».

Gesù accoglie subito questo appello estremo che, però, sembra ormai smentito dai fatti. Nei pressi dell’abitazione di Giairo si levano già il tipico vociare e le urla che accompagnano un evento tragico, soprattutto nella consuetudine orientale. D’altronde la notizia che circola non ammette repliche: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?».

Impressionante e provocatoria è la replica di Gesù, tant’è vero che viene accolta con ironia: «La bambina non è morta, ma dorme!». Davanti a Cristo la morte si trasforma in un sonno che può essere “risvegliato”: non per nulla nel linguaggio dei Vangeli la risurrezione è descritta col verbo greco del “risveglio” (eghéirein) da un sonno profondo e mortale. A questo punto si ha il culmine della vicenda, segnata dalla misericordia tenera di Gesù e dai suoi gesti.

Egli si fa accompagnare nella stanza solo dai genitori e da tre apostoli: «Prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui [i tre discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni] ed entrò dov’era la bambina». Si può immaginare il silenzio attonito che accompagna quei momenti e l’atto semplice ma delicato che compie Gesù: «Prese la mano della bambina». Il silenzio è rotto da due sole parole pronunciate con tenerezza nella lingua originaria dello stesso Gesù e dei circostanti, l’aramaico: “Talità kum”, «Ragazza, dài, alzati!».

Ed ecco il prodigio dell’amore che dà la vita a una creatura e che diffonde stupore e gioia attorno a sé: «Subito la fanciulla si alzò e camminava».

Ma c’è ancora un tocco di delicatezza che viene introdotto da Cristo: «Disse di darle da mangiare», preoccupato come un padre della debolezza fisica della piccola che usciva da quel “sonno” profondo. La figura di Gesù si erge a tutto tondo, certo, alonata dalla sua potenza, ma anche dalla sua finezza e dolcezza misericordiosa, rendendo questo episodio indimenticabile e un segno di speranza oltre la sofferenza e la morte.

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