Il violino del rock da Dylan al Lario

Scarlet Rivera: «Attraversai la strada e lui si fermò: presi il posto della chitarra di Clapton nell’album “Desire”». In questi giorni dal vivo a Tremezzina e in Brianza

Scarlet Rivera è tra i nomi di punta della XIX edizione del Townes Van Zandt Festival in programma domenica 28 maggio alle 17.30 al Teatro del Sacro Cuore di Figino Serenza (viale Rimembranze 10). Info e prenotazioni qui. Inoltre sabato 27 maggio alle 16.30 duetterà con Dori Ghezzi nel festival Bellezze Interiori a Tremezzina. Info e biglietti qui. Vi proponiamo un’intervista, o meglio sarebbe dire un dialogo, tra la grande violinista e il cantautore, Andrea Parodi, che l’ha portata in Italia per questi e altri appuntamenti.

Un pomeriggio di giugno del 1975 una ragazza dai lunghi capelli rossi con un violino in spalla attraversa la tredicesima strada nel cuore del Greenwich Village di New York. Una macchina inchioda per farla passare. Al volante c’è Bob Dylan, che aveva appena terminato una lunga sessione in studio di registrazione insieme a Eric Clapton e alla sua band. Quell’incontro segna una svolta nel mondo del rock, uno “sliding doors” che porterà il violino gipsy di una giovane ragazza sconosciuta incontrata per caso a sostituire la chitarra solista di uno dei più celebri musicisti al mondo. Un violino suonato alla stregua di una chitarra elettrica, che rivoluzionerà la musica rock, tessendo una sintesi meravigliosa mai sentita prima. Il violino è uno strumento principe tanto nella musica classica quanto in quella popolare e Dylan e Scarlet Rivera portano per la prima volta il violino nel rock. Ero un bambino quando ho ascoltato per la prima volta “Desire” e per tutta la vita ho pensato a Scarlet Rivera come a un personaggio leggendario, pieno di fascino e magia. Poi ho avuto la fortuna di incontrarla e quest’estate Scarlet porterà la sua musica, il suo violino e le sue storie di Dylan in giro per l’Italia e sul lago di Como. Sabato 27 maggio sarà la protagonista a Tremezzina del Festival Bellezze Interiori insieme a Dori Ghezzi, moglie di Fabrizio De André, e domenica 28 maggio al Festival dedicato a Townes Van Zandt che si svolge da diciannove anni a Figino Serenza.

Ma cosa sarebbe successo, se avessi attraversato la strada soltanto 5 minuti dopo?

La mia vita non sarebbe stata la stessa. È stato un colpo di fulmine per entrambi e per me l’inizio di tutto. Dylan mi ha chiesto di annotare l’indirizzo dei Cbs Studios e di essere là la mattina dopo. Era la prima volta che entravo in uno studio di registrazione. C’erano Eric Clapton e la sua band, così come molti dei migliori turnisti di New York. È stato molto intimidatorio, ma ho preso tranquillamente il mio posto e ho ascoltato attentamente ogni traccia mentre Bob le scorreva prima di registrare. Non sono rimasta nella stanza principale, ma sono dovuta andare in una cabina di isolamento per suonare. Ho improvvisato tutte le mie parti sul posto per ogni canzone, senza istruzioni da parte di nessuno. Ho lasciato che le sensazioni mi guidassero ad ogni passo che facevo. Ad un certo punto è partito un assolo di armonica e mi sono fermata. Non volevo suonare sopra l’armonica di Bob, eppure lui ha interrotto la registrazione e mi ha detto di sentirmi libera di provare a suonare insieme. Ero totalmente all’oscuro del fatto che altri avessero provato e fallito a suonare insieme alla sua armonica. Per fortuna non lo sapevo e più tardi mi avrebbero detto che suonavo il violino come un chitarrista solista. Alla fine, Bob ha preso la drammatica decisione di scegliere un sound intimo con Rob Stoner al basso, Howie Wyeth alla batteria e il mio violino, rinunciando così a Eric Clapton e alla sua big band! Se avessi attraversato la strada soltanto qualche minuto dopo credo che ci saremmo semplicemente incontrati in un altro angolo della città, magari una settimana più tardi. Sono andata a New York perché dovevo trovare qualcosa, non sapevo esattamente cosa e poi è apparso Bob Dylan.

Ti consideri una pioniera per aver portato il violino elettrico nel rock?

Portare il violino nel Rock negli anni Settanta era quello che volevo, ma i violini allora venivano usati solo nelle sezioni di archi. Non esisteva che il violino fosse presente al pari di una chitarra rock in un disco e io volevo fortemente che le cose cambiassero. Ero conscia che il modo in cui suonavo il violino era rivoluzionario, ma l’incontro con Bob Dylan ha fatto accadere tutto questo nella maniera più eclatante possibile. Eric Clapton aveva già registrato tutte le sue chitarre. Era come una resa dei conti tra pistoleri. E ho vinto io. Credo che anche Bob inconsciamente stesse cercando qualcosa di nuovo e antico al tempo stesso. Ecco che la mano del destino lo ha fatto accadere. Non avrei mai e poi mai sognato di essere la prescelta, ma dal momento in cui ci siamo incontrati qualcosa è scoccato. Abbiamo fatto click. Ci siamo capiti l’un l’altro sul piano musicale e personale e su molti altri piani.

E dopo “Desire” Dylan ti ha portato in tour, uno dei tour più leggendari della storia con la Rolling Thunder Review, immortalato anche dalla regia di Martin Scorsese.

Bob Dylan mi diede enorme riconoscimento annunciandomi sul palco per nome ogni sera. Mi ha scoperta lui stesso e ci teneva che il mondo sapesse che era orgoglioso di spartire i riflettori con me. È stato travolgente sperimentare il suo apprezzamento personale, così come quello del pubblico di tutto il mondo. Sul palco tra noi c’era un’intesa speciale, qualcosa di unico e Scorsese è stato bravissimo a catturare l’energia e la magia che si generava dai nostri sguardi. È stata l’avventura più romantica della mia vita condivisa con i più grandi poeti della beat generation e i migliori musicisti al mondo, tra cui Joni Mitchell che è diventata una delle mie più care amiche.

Come mai Scorsese nel film sulla Rolling Thunder Review ti ha battezzata “The Queen of Swords” (la Regina di Spade)?

C’erano mistero e simbologia nel tour della Rolling Thunder Revue. Talvolta portavo un pugnale alla vita e dipingevo il mio viso. Era tutto simbolico: la farfalla, la ragnatela, la spada e anche il serpente. Ogni disegno aveva un significato: la ragnatela è un antico simbolo di mistero, potere e crescita, la spada è la mia forza, la farfalla è trasformazione. Il mio nome all’anagrafe è Donna Shea e quando sono arrivata a New York da Chicago, un giorno camminando nel Village, ho avuto una visione potente. Dovevo fare un passo verso la vera me stessa, per entrare dentro il mio vero nome, quello che mi rappresenta veramente, proprio come un bruco che emerge dal bozzolo in un nuovo stato del suo essere. È stata una trasformazione, come diventare farfalla. E il nome che mi è venuto in mente è stato Scarlet Rivera.

Da quel momento Scarlet Rivera ha fatto il suo ingresso trionfale nel mondo del rock. Con chi hai suonato dopo Bob Dylan?

Ho suonato con Tracy Chapman, con le Indigo Girls, con la Duke Ellington Orchestra e moltissimi altri. Ho sposato Tommy Eyre che era il produttore di Joe Cocker e George Michael. Devo tutto all’incontro con Bob, la mia vita è cambiata per sempre, per questo all’età di settant’anni ho deciso di cantare le sue canzoni, per ringraziarlo ancora una volta e perché nessuno scrive canzoni come lui. La prima volta che ho cantato una sua canzone lui era tra il pubblico.

Vi siete incontrati ancora?

Si, molte volte e ho saputo che sarà in tour in Italia quest’estate. Mi piacerebbe andare a trovarlo in uno dei suoi concerti.

Hai molti concerti in programma in Italia quest’estate?

Sì, parecchi e farò anche concerti in Spagna e in Svizzera con Elliott Murphy. Tornerò in America il 1° agosto. Tante serate saranno dedicate a Bob Dylan e ci sono in programma eventi speciali come il Townes Van Zandt Festival e alcuni appuntamenti insieme a Dori Ghezzi, moglie di Fabrizio De André. Conoscere Dori è stato emozionante, si è creata una sintonia forte tra noi e queste sensazioni sono arrivate al pubblico che attraverso il nostro incontro ha immaginato quello tra Dylan e De André. Dori mi ha regalato alcuni cd con le canzoni di Fabrizio e mi ha raccontato la storia del rapimento. Mi ha toccato a tal punto che ho deciso di cantare “Hotel Supramonte” in inglese. Sarà un’anteprima di questo tour e l’abbiamo anche registrata in studio col batterista di Leonard Cohen, Rafael Gayol. È davvero incredibile quello che la musica riesce a fare. Ecco, mi piacerebbe andare a sentire Dylan con Dori a Milano quest’estate.

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