La guerra non si evita con i buoni sentimenti

Lo storico Gianluca Sadun Bordoni: «Illusorio che la democrazia porti la pace. Più efficace il deterrente di una difesa autonoma europea che alzi il rischio per chi attacca»

Nel secondo Novecento ha prevalso a lungo l’idea che la guerra non fosse un elemento caratteristico di tutta l’umanità ma piuttosto una creazione culturale frutto di determinate strutture sociali, politiche ed economiche. Un concetto, come quello della pace preistorica, che è stato smentito da studi archeologici che dimostrano esattamente il contrario, ovvero che la guerra sia un fenomeno che caratterizza tutte le fasi della nostra civiltà.

È questo l’assunto da cui prende avvio il saggio “Guerra e natura umana. Le radici del disordine mondiale” (Il Mulino, Bologna 2025) di Gianluca Sadun Bordoni, professore di filosofia del diritto dell’Università di Teramo.

In un Europa che si interroga sulla possibilità di riarmarsi, un’opera come quella di Sadun Bordoni – che oggi intervistiamo – è più che mai attuale e urgente in quanto lo studio della guerra da una prospettiva antropologica può essere utile per gettare la basi del superamento politico e sociale del conflitto e per maturare consapevolezza sui metodi di costruzione della pace.

Professore partendo dal titolo del suo libro, che definizione darebbe ai due concetti chiave di “guerra” e di “natura umana”?

Definire il significato di questi due concetti è la prima fondamentale questione per capire il contenuto del libro. Per guerra si intende essenzialmente la violenza letale di coalizione tra gruppi, militarizzata o no. Il termine natura umana va invece ricondotto alla prospettiva della scienza evoluzionistica. Non è un quindi un concetto ideale e fuori dal tempo ma cambia nel corso della storia proprio alla luce delle scoperte scientifiche, come nel caso delle nuove prospettive aperte negli ultimi decenni dalla genetica e dalla paleogenetica.

Nel saggio si riporta il caso del sito di Nataruk in Kenya dove sono stati rinvenuti scheletri che testimoniano l’avvenimento di un massacro etnico risalente a 10.000 anni fa. Che valore ha un ritrovamento come questo?

Gli scavi di Nataruk sono oggi tra i meglio studiati e dimostrano in modo evidente come più di 10.000 anni fa il conflitto tra gruppi fosse già esistente, e con caratteristiche di violenza particolarmente efferate e radicali. Questi scavi mostrano la sepoltura di uomini e donne con mani e piedi legati e ginocchia spezzate, un vero e proprio eccidio preistorico. Ritrovamenti come questi, che si stanno moltiplicando in Asia e Africa, mettono in crisi l’idea della “pace preistorica” che invece aveva avuto un grande diffusione nel dopoguerra. Peraltro queste forme di violenza hanno similitudini con stragi avvenute ai giorni nostri, a dimostrazione che le tecniche di esecuzione di massa non sono cambiate.

Per dimostrare che la guerra è sempre stata una caratteristica della nostra specie si affronta anche il tema del conflitto nel mondo animale….

Sì, si è cercato di arrivare a questa conclusione seguendo un metodo di tipo regressivo. Partendo dall’osservazione che la guerra sembra essere presente ovunque e in qualsiasi civiltà, si è volto lo sguardo prima alla preistoria e poi al mondo animale guardando in particolare alle specie che hanno antenati comuni con quella umana. In questo caso una scoperta cruciale è stata quella della primatologa Goodall che negli anni 70 si era recata in Africa per dimostrare che gli scimpanzé fossero pacifici. La studiosa si trovò invece ad osservare la cosiddetta guerra di Gombe, uno scontro tra due tribù di scimpanzé che si concluse con lo sterminio di un gruppo da parte dell’altro. Altri studi recenti documentano che gli scimpanzé si spostano in un territorio rivale seguendo dei percorsi che sembrano delle tattiche di guerra, ad esempio osservando un territorio dall’alto per poterlo controllare meglio. A questo proposito è opportuno fare una precisazione: dire che la guerra ha radici nella storia naturale della specie non significa affermare che la guerra sia un “istinto” (come possono esserlo la fame, il sonno o il sesso), anche perché il conflitto sembra essere sempre legato a un calcolo costo-beneficio.

Se la guerra è sempre stata una caratteristica invariante della nostra specie, come è cambiato il conflitto nel corso della storia umana?

I termini e le condizioni del conflitto sono cambiati notevolmente con il passaggio dalla guerra non-militarizzata alla guerra militarizzata. Il fattore storicamente decisivo, ovvero la superiorità quantitativa di forze a disposizione, è stato messo fortemente in discussione nella guerra moderna, si pensi ai casi della guerriglia ma anche alle possibilità offerte dalla guerra ibrida o non-convenzionale. Chiaramente anche se l’adozione della tecnologia ha modificato la conduzione della guerra, il potenziale militare ed economico continua a rimanere un fattore di primaria importanza.

Nel suo libro cita la frase dello storico Jacob Burckhardt: “Soltanto nella guerra, nella lotta agonistica contro altri popoli, un popolo impara realmente a conoscere tutta la sua energia come nazione”. Crede che questa frase sia valida anche oggi?

Sì, credo ci siano esempi molto attuali che indicano la validità di questa frase che è certamente molto impegnativa. Mi fa pensare al caso dell’Ucraina, un paese senza una forte e univoca identità religiosa e culturale, che proprio a seguito dell’invasione russa sembra aver superato le differenze interne maturando una nuova coscienza nazionale. Un caso simile sta emergendo in questi giorni in Europa. La minaccia della Russia e il possibile ritiro della difesa degli Stati Uniti, ha prodotto in molti paesi dell’Unione una nuova visione delle relazioni internazionali e quindi la riscoperta della necessità di organizzarsi in termini nuovi investendo su un’identità politico-militare che finora era rimasta latente.

Nel contesto attuale, con il ritorno delle tensioni internazionali e la minaccia nucleare, è ancora possibile sviluppare una strategia di pace che vada oltre la logica della forza militare?

Si può dire che esistano due forme di pace: una è la pace egemonica e l’altra la pace di equilibrio. La prima si realizza quando una sola super-potenza detta le condizioni alle altre forze (come nel caso degli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale), la seconda quando la presenza di più forze in campo dello stesso peso scoraggia la possibilità di una risoluzione militare dei conflitti politici. Oggi la pace egemonica non sembra pensabile perché non c’è più una sola potenza ma piuttosto un confronto tra Stati Uniti e Cina. Dunque il problema è legato alla costruibilità di un equilibrio tra queste due forze che agiscono all’interno di uno scenario globale e che sono caratterizzate da profonde differenze culturali e politiche. A questo si aggiunge che l’idea forte del pacifismo moderno era legata alla presenza di alcune dinamiche storiche oggettive (come l’avvento delle democrazie liberali e la presenza di un’economia internazionale) che si pensava avrebbero portato a un superamento della guerra. Oggi che il conflitto tra super-potenze sembra tornato prepotentemente sulla scena questo concetto si sta rivelando sempre più illusorio.

Infine, alla luce delle sue riflessioni, qual è la “strategia migliore” per contenere la violenza e promuovere una maggiore consapevolezza collettiva?

La tesi generale è semplice: la guerra scoppia quando si dissolve la deterrenza. Il modo migliore per evitare la guerra è quindi costruire la deterrenza, ovvero fare in modo che chi è intenzionato ad attaccare desista perché il comportamento aggressivo è troppo rischioso.

Per l’Europa questo significherebbe dotarsi di una capacità difensiva eventualmente anche autonoma. Il problema è che le nuove frontiere tecnologiche complicano enormemente il discorso e lasciano aperto un grande interrogativo: sappiamo come si costruisce una deterrenza nell’ambito delle forze tradizionali e della forza nucleare, ma come comportarsi nell’ambito dell’intelligenza artificiale? Questa sarà la prossima grande partita da affrontare.

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