La vita viaggio infinito, a lezione da Chatwin

Con questo articolo sull’autore di “In Patagonia”inauguriamo una serie scritta per “L’Ordine” dal “geopoeta” Davide S. Sapienza. Strumenti per cercare il nostro destino spirituale

Il destino temporale dello scrittore è inestricabilmente legato all’epoca in cui si nasce. Ma esiste anche un destino spirituale, quello in cui le parole impresse sulle pagine si smaterializzano e prendono un sentiero misterioso. È un viaggio che non ha meta se non il viaggio stesso. Herman Melville nel 1851 pubblica “Moby Dick”, pietra angolare del romanzo moderno: la critica lo deride e il pubblico lo ignora. Ma “la balena bianca” ha un suo abisso profondo da seguire nella psicologia collettiva. Così ci volle il Novecento, quando, nel primo dopoguerra questo laico “nuovo testamento” diventò una pietra miliare della nostra civiltà.

Icona del viaggiatore

Ma esiste anche lo scrittore sui generis, un prototipo unico e irripetibile, le cui invenzioni letterarie affondano le radici in una tradizione ma i cui germogli danno origine a una nuova specie in grado di respirare l’aria del proprio tempo e di trovarci qualcosa della quale non ci eravamo accorti. È il caso di Bruce Chatwin, nativo di Sheffield, Inghilterra, classe 1940, icona del viaggiatore che insegue un sogno e ad esso si affida per riconoscere l’ignota avventura di vivere. Parte dal Robert Byron di “La via per l’Oxiana”, per arrivare nel 1977 a “In Patagonia”, «libro-simbolo di tutti i viaggi», dice la scheda della casa editrice Adelphi in una lapidaria frase che riassume le moltitudini incluse nel racconto.

Era il dicembre 1974 quando una lettera di Chatwin arriva sulla scrivania di Francis Wyndham al Sunday Times. Il francobollo è timbrato a Lima, Perù: «Ho fatto quello che avevo minacciato di fare, improvvisamente mi sono stufato di New York e sono fuggito in Sud America. Questa sera parto per Buenos Aires. Ho intenzione di passare il Natale nel cuore della Patagonia; voglio scrivere una storia per me stesso. È tutta la vita che desidero farlo». Da anni Chatwin annotava parole e idee per un libro che non terminerà mai: “L’alternativa nomade”. I suoi interessi verso le popolazioni nomadi, la storia, la geografia, l’archeologia, le persone, lo avevano portato a “vedere” la Patagonia come luogo lontano, ma anche sicuro, per sfuggire alla quotidianità. «Passiamo troppo tempo in stanze chiuse,» aveva scritto in un articolo pubblicato su “Vogue” (“It’s a nomad nomad world” si trova nel postumo “Anatomia dell’irrequietezza”). Un’eco che arrivava a Nietzsche: «solo i pensieri che si sono formati camminando hanno valore» affermava il filosofo. Chatwin era convinto che l’impellente urgenza di stare in movimento era il seme del nostro genoma e sapeva anche perché, in una società come la nostra: «le droghe sono i veicoli per gente che ha dimenticato come si cammina. I viaggi reali sono più efficaci, economici e istruttivi di quelli fittizi».

Dunque sì, viaggiare. Ma cosa significa oggi? Per tanti è testimoniare, per altri è raccontare geografie della mente. Le più intime. Esse prendono forma dentro di noi mentre ci evolviamo e da lì iniziano i nostri viaggi senza fine. Paesaggi che danno nitore alla vita, un’alba tersa in montagna che dischiude orizzonti. Tra “In Patagonia” e la sua prematura dipartita nel gennaio 1989, Chatwin scrive una manciata di libri, un ciclo concluso dal capolavoro il cui nomadismo narrativo caratterizza il capolavoro: un abbraccio reale ma anche immaginario con i popoli aborigeni dell’Australia, i più antichi del pianeta: “Le vie dei canti”. Anni intensi, nei quali l’amicizia con il regista tedesco Werner Herzog fu specchio di due spiriti irrequieti pronti a chiedersi, “Che ci faccio qui?”. Nel 2019 il regista di “Fitzcarraldo” dedica all’amico il racconto cinematografico “Nomad. In cammino con Bruce Chatwin”. Un passaggio chiave sul crinale della storia di questo secolo, una storia fatta di storie. Un documento che ci ricorda perché, se per qualche ineffabile ragione Bruce era scomparso dai radar dei media, la ragione era intrinseca: è proprio in quello spazio fuori dai radar che il nomadismo sopravvive. Sì, il nomadismo, che è ancora una provocazione: il nostro genoma primordiale, l’intelligenza del mondo umano se si evolve deve farci i conti e la domanda non cambia mai: “Che ci facciamo qui?”

“In Patagonia”, Chatwin trova la chiave di lettura nei brevi flash di appunti dei suoi taccuini e vive “per se stesso” una storia fatta di tante altre irrequietezze capaci di comporre una tela senza cornice, ma aperta, alla quale anche noi, mezzo secolo dopo, possiamo aggiungere uno sguardo personale. E poiché viaggiare camminando è un atto creativo. Bruce era arrivato laggiù per ricostruire la storia di un lontano parente, il capitano Charles Amherst Milward, che aveva donato a sua zia un frammento di pelle di milodonte (un bradipo terricolo). Frammento penetrato nel suo immaginario, rendendolo più desideroso di vivere proprio “quella” avventura.

La Patagonia non è una regione definita amministrativamente bensì terra di 900.000 kmq (tre volte l’Italia) tra Argentina e Cile, nel quale un tempo, per millenni, vissero e vagarono popolazioni indigene alla fine del mondo. Lì nasce il gran poema di Bruce. Che riecheggia nelle parole di Herzog: «quando leggi una grande poesia, nel cuore, nelle budella, avverti immediatamente una innata e profonda verità: una verità estatica». E l’estasi poetica, in opere come “In Patagonia” e “Le vie dei canti”, fluisce copiosa. Racconti che viaggiano seguendo i protagonisti, elevandoli a simbolo della volontà di immaginare e definire nuove normalità. Chatwin lo scrisse, che l’alternativa nomade non avrebbe più avuto spazio nella società della sorveglianza e della sicurezza: lo vediamo nella nostra epoca, in cui si discrimina chi cammina libero per il mondo, soprattutto se viene dalla nazione “sbagliata”; imprigionati da politiche kafkiane e dalla perdita della consapevolezza di vivere il grande viaggio; incapaci di esprimere classi politiche dal livello culturale accettabile, in grado di capire cosa unisce, invece di ciò che divide. Basterebbe regalare a ognuno di loro una copia dei libri di Chatwin per fare un passo avanti? Forse. “In Patagonia” è un libro sulla libertà, che cammina il mondo con noi a patto di accettarne la sfida, così attuale, importante per riconoscere quella tessitura della quale facciamo parte, ma dalla quale spesso ci sconnettiamo, perdendoci nelle nevrosi delle stanze chiuse.

Il cammino come ricerca

Chatwin sapeva dove era il filo da tessere: «Questo viaggio per me è stato come una ricerca (...) la caccia a storie e personaggi da raccontare. È stata l’esperienza più stupefacente perché ovunque mi ritrovassi ho trovato qualche eccentrica personalità con una storia fantastica… Perciò, in ogni luogo dove mi sono ritrovato non era più questione di inseguire una storia, ma di una storia che veniva verso di me… e penso che, probabilmente, anche il vento ha giocato il suo ruolo». Dobbiamo ricordarlo così, Chatwin: col suo zaino di pelle, a un crocevia, soddisfatto di essere nomade in cammino a piedi, mentre percepisce il mondo e pensa: “Che ci faccio qui?”

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