L’Alpeggio
montagna
che nessuno
racconta

Alpeggio non c’è limite. Scrivendolo tutto attaccato, è la filosofia di Davide Codazzi, 31enne che ha messo in pratica la frase che dicono in molti: «mollo tutto e me ne vado in montagna». Parole che di solito presuppongono l’orrore del vivere in città, ma mica Sondrio, minimo minimo Milano, con tutti gli annessi e connessi di miserie, tormenti, inquinamenti, dell’aria, della natura e in fondo dell’animo che presuppongono. A lui è venuto tutto un filino più facile, essendo di Buglio, «quindi qualcuno potrebbe dire che ero già in montagna, solitamente me lo dicono milanesi che si sentono in montagna già quando fanno pausa alla Brace. Con tutto il rispetto, la montagna è minimo minimo dai 1000 metri in su».

Però lei in montagna - in Val Gerola - ci è andato veramente, e parliamo di quota 1500-2000. E dopo anni di racconto delle sue esperienze sui social, su tutti il profilo Instagram @modavegia, ecco un libro, “La mia vita in alpeggio”, appena uscito per Mondadori. I perché sono tanti, iniziamo dal perché un libro.

Beh, perché no? Mi è sempre piaciuto annotarmi quel che succedeva lungo la giornata, insomma tenere un diario, che è la forma perfetta per i social. Ma dopo aver superato i 200mila follower, mi pareva giusto anche scrivere un libro: sono sempre stato appassionato di biografie, e mia cugina, Rosalba Corti, è scrittrice, così mi sono fatto dare una mano.

E adesso, allora, ci spieghi perché la vita negli alpeggi. Ha contato molto la tradizione di famiglia?

Sicuramente vedere mio padre fare certe cose fin da quando ero bambino me le ha rese famigliari, le mucche sono state da subito quasi animali domestici, e con la montagna ho preso immediatamente confidenza. Anzi, papà per me era un supereroe per la pazienza con cui mungeva o portava il bestiame sul monte. A sette anni ricordo un giorno in alpeggio: pioveva a dirotto e io aiutai mio padre a portare la mandria in stalla. La pacca sulla spalla che mi diede a fine sera era il segno che ero un ometto e che con passione e tenacia si potevano fare le cose. Già da ragazzo le estati le passavo in alpeggio. E questo in realtà mi ha instillato parecchi dubbi sul da farsi.

Ovvero?

La situazione era che io a 14-15-16 anni andavo in montagna, i miei amici in discoteca. E quando vedevo i miei coetanei io odoravo di fieno, di sudore, di montagna, non era piacevole anche perché non mancavano le ironie, che magari volevano anche essere simpatiche e non lo erano affatto. Ricordo una volta che giocavo a calcio, ero stanchissimo e l’allenatore mi chiese se avevo sollevato secchi di letame tutta notte. Il contadino, il “muntagnun”, come si dice qui in valle, spesso non gode di grande stima, anche se la Valtellina per secoli di questa gente è stata popolata.

Però lei alla fine ha fatto proprio questo.

Finite le scuole, tanti amici si sono buttati a lavorare nell’edilizia e a guadagnare. Io ho provato a fare l’assicuratore, anzi per tre anni ho piazzato fondi pensione e pensavo che sarebbe stato quello il mio lavoro. Ma alla fine sono tornato in alpeggio. Ha prevalso la voglia di non abbandonare gli animali.

E chissà quanti le hanno detto “beato te, fai a fare la bella vita, a respirare l’aria buona”.

Non sa quanti, ed è anche rivolgendomi a loro che nasce questo libro. Perché la montagna, l’alpeggio, è sì respirare qualcosa di radicalmente diverso dalla schifezza che si trova in città, è sì stare immerso nella natura, assaporare fino in fondo la mutevolezza del cielo nelle ore del giorno e nel cambio delle stagioni. Ma è anche e soprattutto una grande fatica: star dietro alle bestie non vuol dire solo mungerle, portarle a pascolare, accudirle, ma è anche viverci assieme, capire se hanno problemi di salute e quali, curarle. Il lavoro è tantissimo e soprattutto spesso imprevedibile. Ormai lo faccio in maniera fissa da una decina d’anni: ho 39 vacche da latte, una decina tra vitelli e manze, qualche maiale e d’estate ci sono proprietari di capre che me le danno da gestire. Produciamo quasi 400 litri di latte al giorno. Per fortuna in questo tempo sono riuscito a organizzarmi e a rendere il lavoro meno pesante, forse più attrattivo.

Ecco, l’attrattività. Lei è riuscito a convincere qualcuno, direttamente o indirettamente, a compiere il suo stesso passo?

Come no. Ogni tanto viene su qualcuno, programmando di restare, che so, una decina di giorni. Al terzo scende a valle terrorizzato perché non piglia il telefonino o bisogna svegliarsi presto.

In questo non crede che rappresentazioni oleografiche, cartoni animati come Heidi o telefilm come “La casa nella prateria”, abbiano dato un’immagine distorta della montagna e del lavoro rurale.

La risposta è naturalmente sì, ma non è detto che sia stato un male, in parte. Ovvero, hanno saputo attrarre bambini e ragazzi verso questo mondo. La parte bella nel nostro mondo c’è eccome, ed è giusto che se ne parli. È sempre mancato qualcosa che spieghi però anche la fatica, la difficoltà del rapportarsi con una natura che a volte è certamente magnifica, idilliaca alla Disney, ma a volte sa essere anche dura, cattiva, perfino mortale. Quando un cercatore di funghi muore mi viene spesso da piangere proprio pensando a come amasse la natura e come sia bastato un errore, un piede in fallo, a condannarlo.

La letteratura sulla montagna negli ultimi anni ha avuto un rilancio grazie ai libri di Paolo Cognetti, Mauro Corona, Enrico Camanni. Che ne pensa?

Che sono bellissimi libri, ma che sono appunto di montagna. O anzi, per spiegarmi meglio, di alpinismo. Oppure di narrazione tra uomo e natura. Ma non parlano della pastorizia, che è un rapporto tutto speciale. Spero di farlo io con questo libro.

Una delle cose che chi va in alpeggio ama particolarmente è la solitudine. A lei piace?

Anzitutto non sono solissimo: mio fratello Riccardo, due anni meno di me, si occupa dello sfalcio dei prati, tiene puliti i pascoli e guida il trattore come una Ferrari. Abbiamo ricevuto gli stessi valori, sappiamo cosa significhi fare sacrifici. È sempre stato un compagno e un complice. Ma non voglio evitare di parlare della solitudine, che c’è e reggo senza problemi. Io sono sempre stato freddo di carattere, e credo che la montagna mi abbia reso più sensibile, più attento. A tutto: alla natura, a me stesso, agli altri.

Perdoni se non ci facciamo gli affari nostri, lei risulta single. Crede che in questo abbia avuto un certo peso la sua attività in alpeggio? Ci escluda, la prego, risposte tipo “io ho sposato la montagna”.

Escludo certamente di dire una cosa del genere: non so se ho sposato la montagna, ma di sicuro la montagna non è monogama. Purtroppo temo che invece la mia vita sentimentale sia stata condizionata da quella in alpeggio: è un lavoro così totalizzante che dovrei trovare una ragazza che abbia le mie stesse identiche passioni e che accetti di dividere tutto il tempo in quota, facendo non le mie stesse mansioni, ma buona parte. Io ho avuto delle relazioni, ma sono tutte naufragate proprio per l’impossibilità di conciliarle con l’alpeggio, perdipiù le ragazze non erano neanche valtellinesi, era tutto troppo lontano. Mio padre è stato più fortunato, se si può dire così visto che ha a lungo avuto malattie pesanti. Mamma, casalinga, nel periodo dovette svolgere i lavori fondamentali: lei veniva da una famiglia senza animali, non era abituata a governarli, ma si è sacrificata ed è andata in stalla. Spero di trovare una donna così, una che capisca che è lei che deve venire da me.

Ma il suo mestiere ha ancora un futuro? C’è chi ne dubita, tra cambiamenti climatici e altre cose belle.

Io credo che l’abbia eccome. Anche per i cambiamenti climatici che, oltre a una vita sempre meno sopportabile nelle città, porteranno tanti a spostarsi qui, e ci sarà chi questo lavoro imparerà a farlo e amarlo. Certo, le soddisfazioni economiche sono assai meno, ma ci si campa tranquillamente, e questo lavoro ti prende così tanto che nel tempo che ti resta non pensi a spendere soldi.

E il futuro della Valtellina passa dal suo mestiere?

Io credo che saremmo matti a pensare ad altro. La valle deve campare di tradizioni, latterie vecchie che siano sia attività produttive che luoghi da far conoscere ai turisti, sagre del formaggio, pizzoccheri. Lo pensavo da sempre, ma a convincermi definitivamente è stato Michele Rigamonti, l’imprenditore che è anche presidente del Sondrio: parlandomi del dovere di portare avanti le tradizioni ha fatto scattare qualcosa in me.

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