il mago Guido e I “miracoli” di Perdisanto

Vi anticipiamo uno dei sei racconti che compongono il numero speciale de L’Ordine dell’11 agosto. Gli altri sono di Andrea Vitali, Flavio Santi, Stefano Valenti, Silvia Montemurro e Fulvio Panzeri

Non so se vi parlai mai degli anni che vissi a Perdisanto, quattordici in tutto, e che per me rappresentano ancora la consolazione della notte. Non so se vi dissi della strada ombreggiata dai boschi, le cui fronde, in piena estate, oscillavano pigre, inverdite dal calore asciutto della montagna. Non ricordo se accennai alla fonte d’acqua miracolosa, alla targa in bronzo che recita “qui si è abbeverato il Poeta”.

Se vi ho mai detto del tempo che fu e delle nostre ombre lunghe, giù per la scarpata, dell’erba in grandi ciuffi a rinsecchire e dei maggiolini a cui legavamo fili di cotone per le battaglie.

Ma di una cosa sì, voglio parlarvi, del primo bambino che vidi quando, a dodici anni, mamma decise di trasferirci dalla nonna e mi trascinò in auto su per i sentieri, fino al borgo. Il lago, laggiù, appariva e scompariva, dimenticandoci.

La casa di nonna dava su un cortile chiuso, luminoso solo di notte, quando la luna lo sbiancava. Era a due passi dal borgo dipinto, il vicolo della via crucis in cui splendevano dolorosi volti di Cristo. Quei colori – il rosso vivo del sangue, l’azzurro della veste – contrastavano con i muri delle nostre case, che si chiudevano una sull’altra, fuligginose.

Lo vidi il terzo giorno dal mio arrivo. Ciondolava per la corte con gli occhi bendati e le braccia tese avanti. Un piccolo cieco, pensai, ma non mi trattenni con lui. Già nonna grufolava alla finestra che la minestra era pronta e il puzzo di cavolo si spandeva, avvolgendomi. Cavolo nero a pranzo, cavolfiore a cena, la domenica cassoeula con poca carne e molte ossa. Serviva il piatto sbattendolo e i bastoni delle sue braccia si arcuavano quando mi spingeva giù dalla sedia, a fine pasto.

A volte, di notte, una secchiata d’acqua e i suoi improperi contro qualche ragazzone che veniva a farla davanti alla nostra porta. Altre volte, la mattina, le mosche in circolo su una merda d’uomo grossa due pugni. “Molti nemici molto onore” ringhiava lei, e mamma lanciava un’occhiata commossa al Duce in bianco e nero che fissava un punto lontano, oltre le nostre vite.

Rividi il bambino senza benda e i suoi occhi splendevano. Si chiamava Guido e portava una mantellina troppo lunga, inceppata alle ginocchia. La miniatura di un viso adulto, guance piene di memoria a venire. Pescavamo ranette al fiume e ascoltavamo la radio al bar. A volte spiavamo la Ginetta alla finestra, che faceva la baldracca. Se ci salutava in sottoveste, scappavamo per le vie dei boschi.

Di Guido bambino non ricordo i discorsi, perché parlava poco o nulla. Attraversava il paese con gli stracci della domenica e il mento in su, le gambette sbiondate dalla luce del mattino.

Così fino a che si diffuse la voce. Da allora, prese a mostrarsi solo con la benda. Il nome Guido Cantaluppi scese a valle e poi rotolò fino a Milano, attraversò il Pavese e si era già diffuso in Valtellina e nel Comasco.

La nostra corte grigia si colorò di miseria e commozione. File di corpi, in attesa: corpi di ricchi e di poveracci, di vecchie strette nello scialle e signore con colli di volpi, di giovani spose disperate e di madri sghembe e pallide. Soprattutto, corpi di donne.

La nonna, furiosa, spazzava la polvere nel cortile per far tossire gli astanti.

«Mio figlio si è immolato per la Patria» diceva per zittirli e io, che sapevo che papà non era morto, fingevo di tossire per non ridere.

Mamma, un martedì pomeriggio, si sporcò la bocca di rossetto e si aggiustò i capelli. Non era bella, gli occhi tondi, da barbagianni, puntavano con spavento il mondo. Da che ho memoria, la ricordo tremante. Tremando, bussò alla porta di Guido e chiese del piccolo mago.

La casa consisteva in un’unica stanza, ampia e grigia. I letti si intravedevano dietro a un separé e di qui, al tavolo della cucina, stava lui, con gli occhi bendati e le mani tese avanti.

«Avete una foto?» chiese suo padre, fissandoci con l’occhio guercio.

Mamma scosse la testa ma estrasse dalla borsa una mutanda bianca, piegata e stirata. Gliela porse.

«Va bene uguale», fece l’uomo e allungò l’altra mano.

Lei estrasse dalla borsa una manciata di banconote, piegate e stirate. Gliele porse.

Guido prese la mutanda tra le piccole dita. Le mani si mossero come granchi, su e giù per la stoffa. Un mugolio mentre si concentrava, con le labbra sporgenti.

Le campane batterono la mezza e lui cominciò a tossire. Colpi secchi, regolari, come gli fosse andata di traverso la saliva. Poi si drizzò e disse: «L’ho trovato».

Mia madre si appoggiò al tavolo e sgranò gli occhi. Il padre di Guido gli pizzicò la spalla, invitandolo a continuare.

«È in un posto di mare» disse «la gente cammina per le strade e c’è una bella brezza».

Mamma si sedette con la zucca tra le mani.

«Sanremo, è a Sanremo! È vestito elegante e ha un gran cappello in testa. È con una donna e un bambino piccolo».

Ce ne andammo in silenzio. Le gambe di mamma parevano avviluppate all’aria, lo sguardo rabbioso.

«È con quell’altra» disse alla nonna, prima di sedersi a muggire tra le lacrime. La vecchia la alzò per le spalle, era più piccola di lei e fu costretta a stirarsi tutta per rimetterla in piedi. Le diede un ceffone con la mano aperta: «Non si piange davanti al bambino». La spedì a letto e mi mandò a mondare i cornetti nel lavandino.

Ora che avevo scoperto di cosa si occupasse Guido, pretendevo di saperne di più sulle sue visioni.

«I morti sono di sabbia, i vivi di acqua. E tutti insieme si pestano i piedi nella girandola del mondo» mi spiegò, mentre facevamo volare le eliche dell’acero.

Il pomeriggio, d’estate, iniziai a distribuire bicchieri d’acqua e limone ai presenti in cambio di una moneta. Le anziane mi accarezzavano la testa, grate. Mi sedevo ai loro piedi e ascoltavo le loro storie. Una aveva il figlio disperso in Russia –«sento odore di patate», diceva Guido, «e un canto straniero» -; una il padre scomparso dopo essere stato preso dai fascisti – «il corpo è in fondo al lago, lui piange perché lo stanno mangiando i pesci» -; un’altra ancora il fratello scomparso proprio il venticinque aprile - «è in Svizzera, su un treno, ma non sta tornando da voi» -; l’ultima della fila, un gatto a cui teneva molto, che si era dato alla macchia.

Dopo un anno e mezzo, il padre di Guido comprò una Topolino nera, da lucidare due volte al giorno per togliere la polvere che nonna alzava nel cortile. A due anni dalle visioni, si disse che il guercio avesse adocchiato un appartamento nel borgo dipinto, sopra all’edicola della terza caduta.

Le nostre uscite si diradarono. Guido si vedeva poco a scuola e non aveva le ginocchia sbucciate. Parlava di ectoplasmi e magnetismo, cose che aveva letto nei libri degli illusionisti, mentre noi volevano giocare a pallone al campo e tirare sassi alle lucertole. La maestra, a volte, si intratteneva con lui dopo lezione e sapevamo tutti che gli chiedeva del professor Luigioni, sposato e con tre figli, passato dalla scuola per una stagione fatale.

Il successo, si sa, ha un prezzo e quello di Guido Cantaluppi parve altissimo. Si beccò la tisi e ne uscì vivo ma coi polmoni a pezzi, poi la broncopolmonite e, ancora, un morbo che lo riempì di bubboni per un mese intero. Alla decadenza del suo corpo, noi rispondevamo con un allungarsi di gambe e un appetito da lupi, tanto che a quattordici anni ero due spanne più alto di lui e avevo spalle larghe il doppio.

A casa mi prendeva l’angoscia. Nonna aveva appeso la foto di papà accanto a quella del Duce e lo celebravamo come fosse morto. Il due novembre tagliava i crisantemi e glieli deponeva davanti, in religioso silenzio. Mamma si era calata nella vita di Perdisanto, consacrandosi alla Vergine del Belvedere come una suora laica. Passava le ore più calde del giorno a spazzare la chiesa e aveva intrapreso un fitto rapporto confessionale con don Eustachio. «Ho molto da farmi perdonare» diceva malinconica, guardando la cima delle montagne.

Da un luogo come quello, se sei un ragazzo, non puoi che fuggire ed è ciò che feci a sedici anni e mezzo. Annunciai che ero stato preso in acciaieria e sarei sceso a valle da un amico, per qualche tempo. Non c’era nessun amico, ma un ostello in cui mi ficcai come dentro una tana, uscendone qualche mese dopo, trovata una stanzuccia in affitto. Lunghe telefonate in cui nonna mi intimava di tornare da loro e mi augurava il fallimento. Lunghi silenzi prima di riattaccare, giurando a me stesso che non sarei risalito mai più.

Con mia sorpresa però, sentendo l’odore di cavolo in mensa, mi si stringeva il cuore. Avvertivo il richiamo di Perdisanto come se un corno risuonasse da lontano. Rivedevo la fonte, sognavo le lucciole estive e le primule che spiavano il cielo, timide, dalla prima neve. Ma la nostalgia non può nulla sull’orgoglio e non tornai per molto tempo, finché nonna non tirò le cuoia e mamma si decise a levare la facciona di Mussolini dal salotto. Erano ormai gli anni Sessanta e io avevo ventiquattro anni.

La corte era identica a come la ricordavo, solo i muri più muschiosi. Mamma mi faceva l’effetto di una piccola cagna impaurita, mentre mi serviva la cena. Cercavo di sorriderle con gentilezza, accarezzarle la mano che sfuggiva a sistemare una ciocca di capelli cenerini. Si muoveva, parlava, pensava in un corridoio della vita a cui mi era interdetto l’accesso, la dimensione parrocchiale che le aveva permesso di sopravvivere in quegli anni. Per questo, quando le chiesi di Guido, mi rispose piccata.

«Quel lestofante» disse «non abbiamo niente da spartire con gente come lui».

Si era fatto ricco con l’aiuto del diavolo, trucchetti da prestigiatore della mutua, e c’era ancora la fila i giorni pari, quando riceveva su appuntamento. Ne ebbi la conferma la mattina dopo: un serpentone umano sfilò dalla piazza verso la sua porta. Mi accodai anch’io, per scoprire se mi riconoscesse.

In quegli anni, il mio amico aveva ampliato il suo repertorio. Riceveva bendato, ma aveva sostituito lo straccio del padre con un fazzoletto di seta a scacchi. Portava i capelli alle spalle, l’aspetto untuoso e il viso scarnito, ma al collo scintillava una collana con un ciondolo a forma d’occhio che pareva di oro zecchino. Ora Guido sapeva dirti se ti avessero fatto il malocchio.

«Nel suo portafoglio», fece al signore in fila di fronte a me, «c’è un biglietto da visita. L’iniziale è M, dico bene?»

L’uomo aprì il borsello e sbiancò. «Bruci il biglietto e getti via la sveglia che M. le ha regalato. È nel primo cassettone, in camera sua. Vedrà che suo figlio starà meglio».

Quando fu il mio turno, senza togliersi la benda, mi prese le mani e le strinse debolmente: «Sapevo che saresti tornato» mi disse «e questa volta ti fermerai».

Ci prendemmo un bicchiere di rosso al bar Camoscio e non volle rivelarmi il suo trucco. “È tutto vero, morissi qui se non lo è” mi disse, ma il guizzo nei suoi occhi stellati mi diceva che stava mentendo. Al momento di pagare, lo sguardo gli si immalinconì. Fece il gesto di frugarsi nelle tasche e gli offrii io, per non umiliarlo. «Mio padre mi dà una mancia ogni tanto, ché nelle mie condizioni non posso lavorare. Ho il fiato debole. Non mi fa mancare niente, poverino, e io faccio quello che so fare» mi spiegò, sulla strada di casa. Prima di salutarmi, mi chiese di dargli di nuovo le mani. Le strinse nelle sue, ora più forte, e strizzò gli occhi. Sorrise, allora: «Avrai un’esistenza piena».

La mattina dopo, quando già avevo caricato in macchina la borsa, sentii un uggiolio dal piano superiore. Quando salii, trovai mamma riversa a terra, con il piede vicino al naso. Sorrise: «Non è niente», prima di svenire. Rompere il femore alla sua età era una bella grana, specie se don Eustachio non era pronto a restituire quanto lei aveva dato. Nessuna pia donna disposta a prepararle un pasto, non una suora che venisse a farle le iniezioni. Rimasi, dunque, per starle accanto. In acciaieria, due settimane dopo, mi avevano già rimpiazzato con un greco.

Trovai lavoro nella latteria di Perdisanto, come garzone. La mattina consegnavo il latte, il pomeriggio pulivo la stalla. Guardavo gli occhi dei bovi e ci scoprivo un’immensa serenità. Malgrado mi lavassi spesso, l’odore non mi andava mai via del tutto e certe ragazze di montagna ne sembravano attratte. Il loro olfatto scopriva comunanze, i nostri effluvi vibravano alla stessa intensità. Sposai una di loro, Marietta, perché aveva gli occhi belli. Ci trasferimmo nella malga dei suoi, dove l’aria era più buona.

Mi imbattei di nuovo nel mago una decina di anni dopo. Il mio matrimonio era finito, nessun figlio, nessun legame. Tornai da mamma, trasudavo fallimento e barbera. L’ala di cascina di Guido era stata ridipinta in rosso e bianco. Sopra la porta, avevano disegnato una meridiana con l’ombra che segnava sempre le tre.

Mamma si era ritratta, strisciava per la casa come un insetto gentile, faceva la spola tra cascina e parrocchia con borse piene di ghirlande per il patrono, teglie di pasta al forno per Don Eustachio.

“Non dargli confidenza a quella gente lì” mi disse, quando le chiesi del mio antico amico. “Quello esce il terzo venerdì di ogni mese, di notte, e si trova alle riunioni degli stregoni e dei satanisti. Stagli lontano, Alfredo!”

La rassicurai e, la mattina dopo, bussai alla sua finestra. Lui era al tavolo, ne riconobbi il profilo traslucido, oltre la tenda. Quando mi aprì, però, non ci riconoscemmo. Aveva perso gran parte dei capelli, che teneva allacciati alla nuca, e la sua pelle era giallo limone. Gli spiegai chi ero, ecco suo il viso irrorato dal baluginio del ragazzo che fu. Mi salutò cordialmente ma non mi invitò a entrare.

Quel pomeriggio, uno all’ora, uomini eleganti raggiunsero la sua porta.

“Dà i numeri del lotto e si è messo a giocare con la morte” disse mamma, mescolando il ragù.

Mi spiegò che, da un annetto, il mago si concentrava e sapeva predire il giorno della morte dei clienti. La fissava di lì a qualche anno, così che ci volesse del gran tempo per provare fosse una frode. Don Eustachio l’aveva maledetto dal pulpito, dicendo “La morte è un dono di Dio, guai a chi gioca a fare l’indovino”. Per questo, a Perdisanto, nessuno lo salutava più. Al suo passaggio facevano le corna, si toccavano il cavallo. Le suore, prima vittime della stessa scaramanzia, si attaccavano alle sbarre di ferro del cancello.

Aveva lasciato una busta, si diceva, timbrata da un notaio. In quella busta c’era la data esatta della sua morte. Suo padre aveva il mandato di aprirla dopo il suo decesso, in piazza, e leggerla ad alta voce.

«Fa più soldi lui con gli allocchi che tu con le vacche» ripeteva mamma, rassettando la mia stanza.

Mi accadde di vederlo al bar Camoscio, tutto solo, a bersi un’acqua e menta. Alzai la mano per salutarlo, rispose con un contrarsi debole del labbro.

Suo padre aveva comprato una vecchia Porsche Carrera, che faticava a salire dallo sterrato. La teneva posteggiata sotto al portico, coperta da un telo, come una bestia addormentata. La domenica, dopo averla lavata, la lasciava scintillare tra le edicole del borgo dipinto, con la capote abbassata. Qualcuno ci sputava, a sfregio. La ricchezza a Perdisanto era vista con sospetto, specie se conquistata con l’inganno.

Anche io iniziai a provare ostilità verso di loro. Prima si manifestò come un brivido, mentre facevo il bagno alle pozze e li scoprivo appostati laggiù, per un picnic. Poi, come un involontario sdegnarsi della bocca, quando passavo di fianco alla Porsche nuda, blasfema tra le sacre edicole. Infine, come un annuire deciso se al bar si malignava su di loro.

Quando scomparve, e lo cercarono per un giorno intero, qualcuno ironizzò: «Il mago ha fatto la magia». Quando, dopo un’intera notte, non lo si era trovato, iniziò la consacrazione. Il poverino era una vittima del padre, un piccolo santo capace di miracoli.
Chi sosteneva gli avesse guarito un’ernia, chi ricordava il ritrovamento di un figlio, partito per la guerra e dato per disperso. Quando, infine, suo padre scese in piazza il giorno di mercato e aprì la busta nera sigillata, quando lesse la data della morte profetizzata e timbrata dal notaio, qualcuno si commosse e qualcun altro gridò alla truffa. Tutta una messinscena, da giurare che sarebbe tornato dicendosi risorto.

Non risorse. Lo ritrovarono a valle, nel lago artificiale, il corpo era stato trascinato giù dal fiume. Un incidente, dissero, per poterlo seppellire al camposanto.

Al cimitero, mentre Testa d’Osso calava la bara nella fossa e ci buttava una manciata di terra, ho immaginato il suo ultimo viaggio tra le rapide.

«I vivi sono d’acqua», mi aveva detto da bambino, e lui, vissuto sepolto, era finalmente tornato alla vita. Era scivolato nei flutti gelidi, rotolato per le cascate, rimbalzato tra i massi e infine approdato al riposo del lago, galleggiando come una ninfea. Aveva avverato la sua profezia, sbagliando completamente sulla mia.

«Avrai un’esistenza piena» ripeto ancora al fiume, sperando che, a ottant’anni, si compia il miracolo della sua predizione.

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