Matteotti ucciso per coprire la corruzione del duce

Lo storico Mauro Canali: “Si era iscritto a parlare alla Camera il giorno dopo quello in cui lo hanno assassinato. Aveva scoperto i milioni pagati da un petroliere”

Nel centenario della morte del grande antifascista italiano, ne discutiamo con lo storico Mauro Canali, autore del saggio di riferimento “Il delitto Matteotti”, appena riproposto, in versione aggiornata, dall’editore Il Mulino.

Professore, nel libro lei presta attenzione agli uomini del commando che uccise il dissidente. Il 10 giugno del 1924 ci fu l’imboscata: Matteotti fu picchiato e caricato su un’auto appena fuori casa. Erano in cinque, facevano parte della Ceka, la polizia politica agli ordini del duce: Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo. Il capobanda, Dumini, chi era?

Era un trentenne fiorentino nato negli Stati Uniti da padre italiano e madre britannica. Era rientrato in Italia con la famiglia nel 1913 per poi arruolarsi volontario nel Regio Esercito. Allo scoppio della Grande Guerra fu al fronte. Ferito nel 1918 e decorato con una medaglia, fu poi tra i fondatori e caporioni del Fascio fiorentino e cominciò così la sua carriera: a Carrara, nel 1921, con altri, uccide il socialista Renato Lazzeri e sua madre, sempre nello stesso anno sequestra il parlamentare repubblicano Ulderico Mazzolani e lo costringe a bere olio di ricino. Ancora nel 1921, fonda il settimanale “Sassaiola fiorentina”.

Propugnava in Toscana un’ideologia fascista violenta e oltranzista.

Sì, fino a maggio del ’21 questo tipo di azioni erano tollerate dai prefetti, si chiudevano gli occhi, per un disegno a mio avviso folle di Giolitti che sperava, poiché lo squadrismo fascista colpiva soprattutto i socialisti, di mettere in crisi il Psi, di far staccare la componente riformista e farle sostenere il suo governo.

Un’operazione che però non avvenne.

No, perché il partito socialista uscì intatto dalle elezioni, salvo una piccola quota di voti che andò al partito comunista neonato. Giolitti si dimise, gli subentrò Ivanoe Bonomi, che propose una pacificazione tra fascisti, socialisti, anarchici e comunisti. Mussolini accettò perché nel frattempo c’erano stati i fatti di Sarzana: i fascisti toscani capeggiati da Dumini sono gli organizzatori di una mega spedizione per liberare il camerata Renato Ricci, arrestato per violenze dai Carabinieri. Troveranno però a resistergli gli Arditi del popolo, formazione di sinistra. I fascisti ebbero la peggio, lasciando sul terreno una quindicina di morti e scappando inseguiti dalla popolazione infuriata. Dumini a questo punto è ricercato, lascia la Toscana e va a Milano dove trova l’appoggio del fascio meneghino capeggiato da Cesare Rossi e Albino Volpi, un altro dei componenti dell’agguato a Matteotti. Quando dopo la marcia su Roma del ’22 Cesare Rossi diventa capo ufficio stampa della Presidenza del Consiglio e quindi di Mussolini oltre che, di fatto, capo della Ceka fascista, lui chiama a sé Dumini e ne fa il suo braccio esecutivo, accanto a Volpi.

Volpi chi era?

Una creatura docile docile nelle mani di Mussolini, che lo aveva salvato da anni di galera. Aveva ucciso un operaio socialista e si era salvato grazie alla falsa testimonianza dello stesso duce che lo scagionò dicendo che al momento dell’omicidio era con lui. Volpi era una sorta di “enfant gâté” della borghesia milanese che in qualche modo gli perdonava tutto, anche quando sbrogliava situazioni varie a suon di bastonate. De Bono, il capo della polizia, diceva che faceva fatica a immaginare un crimine a Milano senza che non ne fosse coinvolto Volpi.

Dumini fu arrestato il 12 giugno 1924 alla Stazione di Roma.

Sì. Gli occhiuti custodi dello stabile dove abitava Matteotti avevano notato la sera prima dell’agguato un’auto sospetta e ne avevano annotato la targa, che passarono subito alla polizia permettendone l’individuazione. Ma qui voglio dire una cosa: Mussolini ne ordinò la soppressione non solo per la denuncia di violenze e brogli elettorali nel suo ultimo discorso politico del 30 maggio alla Camera, ma per tappargli la bocca prima del suo prossimo discorso.

Perché?

Il discorso del 30 maggio fu un movente, ma per me non il principale. Lo testimonia il fatto che quel gruppo di milanesi viene convocato da Dumini a Roma per il 22 maggio. Volpi, Poveromo, Panzeri e Viola, quattro dei cinque componenti del gruppo omicida, hanno una prenotazione in un Hotel di Roma, documentata. Da subito pedinano Matteotti. Dumini conosceva a Firenze un autista ma, convocato a Roma, decise di dare forfait e rientrò a Firenze l’8 di giugno. Quindi mancava un autista. Dumini a questo punto chiama Volpi e gli ordina di andare subito a Milano e di tornare portando, specificò, «un abilissimo chauffeur».

Qui entra in scena Augusto Malacria, l’ultimo del quintetto.

Arriva a Roma la mattina del 10 giugno, poche ore prima del sequestro. Sarà lui alla guida dell’auto dei rapitori. Il primo progetto era uccidere Matteotti a Vienna, dove si sarebbe recato per un congresso socialista. Gli veniva sempre rifiutato il passaporto ma il 4 giugno gli venne concesso, Matteotti all’ultimo decise però di non andare. A questo punto scattò il piano B, il che però restrinse paurosamente il tempo a disposizione. Perché Matteotti si era iscritto a parlare alla Camera. Per mercoledì 11 giugno.

Il politico di Fratta Polesine era un lucido indagatore. Cosa aveva scoperto?

Corruzione, milioni pagati dalla compagnia Sinclair Oil per ottenere in esclusiva la concessione petrolifera per la ricerca del petrolio in Italia. Corruzione che toccava direttamente il Duce, attraverso suo fratello, Arnaldo, l’affarista di famiglia. Ho trovato traccia dei versamenti.

Matteotti muore. Cosa succede ai sequestratori del leader socialista?

Tutti e cinque gli esecutori, chi più chi meno, godranno dei favori del fascismo, anche perché il 3 gennaio ’25 Mussolini prende pieni poteri. Dumini sa che se cade Mussolini loro sono finiti. Ha interesse a non compromettere il regime che a sua volta teme che possano parlare e manda segnali, cioè soldi, per comunicare vicinanza. Un gioco di ricatti incrociati. Uscito di prigione, pretende dal partito premi e il pagamento delle spese processuali. Dumini sa molto su Matteotti ma anche su altre azioni compiute prima, anche in Francia, clandestinamente, di cui ancora si sa poco, come le bombe da lui messe sotto al giornale socialista “L’Humanité”. Se parlasse travolgerebbe il Governo con le sue rivelazioni. Fa recapitare lettere molto esplicite, che, tra l’altro, il duce, in fuga, si stava portando via. De Felice, il mio maestro le aveva cercate senza esito.

E lei come le ha ritrovate?

Erano in un cassone su un mezzo del convoglio al seguito di Mussolini. Va in panne. I partigiani controllano, si rendono conto che ci sono carte che scottano e le fanno consegnare in Prefettura a Milano. Nel 1947 De Gasperi le richiede. Rimangono a lungo alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Finché le trasferiscono al Ministero dell’Interno che solo nel 1968/69 le deposita all’Archivio Centrale di Roma, che le colloca nei depositi senza inventariarle. Però protocollandone l’ingresso. Indirizzando gli archivisti, si è arrivati alle carte di Dongo che oggi sono consultabili ma, nel 1995, le ho potute leggere solo come studioso. Gli atti processuali invece per una serie di vicissitudini legate a Salvemini si trovavano a Londra, alla London School of Economics. Ho potuto leggerli e scrivere il primo libro documentato su Matteotti (1997) che non fosse basato solo su giornali e memorie. In Italia sarebbero stati consultabili come atti secretati soltanto dal 2017, a 70 anni dal 1947.

Dove ritroviamo Dumini durante il Ventennio?

Mussolini temeva l’espatrio di Dumini. Veniva controllato e spesso spedito al confino. Finché riuscirà a depositare una lettera presso uno studio legale negli Usa in cui raccontava tutto del delitto Matteotti. Ne informa De Bono, il capo della polizia. Dice che se gli fanno qualcosa ha dato ordine di renderla pubblica. Il duce capisce e da qui in avanti lo tratterà con i guanti. Lo manda in Libia dove vive come ricco imprenditore con finanziamenti del governo. Fino al ’42, quando deve rientrare per la guerra.

E nel dopoguerra?

Alla fine della guerra, sotto falsa identità lavorò per le truppe d’occupazione americane, facendo da autista e da interprete. Gli inglesi poi trovarono la lettera mandata da Dumini a De Bono. Avvisata l’Fbi americana, venne scoperto il suo testamento. Arrestato nel 1945, condannato all’ergastolo nel ’47, grazie ad amnistie e indulto poi mutato nel 1956 in libertà condizionale, vivrà libero fino al 1967, quando morirà a Roma, a 73 anni.

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