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Domenica 09 Marzo 2025
Oreggioni, il filosofo che parla ai ghiacciai
Il 2025 è il primo Anno internazionale per la conservazione dei ghiacciai e il 21 marzo sarà la giornata dedicata. “L’Ordine” celebra la duplice ricorrenza incontrando un autore che grazie al cammino dialoga con le montagne

Nel 1949, postumo, uscì l’unico libro di Aldo Leopold, forestale, ecologista, saggista. Presto un saggio in esso contenuto, “Pensare come una montagna” (che dà il titolo l’edizione italiana dell’intero volume), divenne una sorta di manifesto dell’ecologia più profonda, simbolo di un sentire capace di affrontare il solco con il pensiero, grazie alla pratica fisica e interiore della geografia nel cercare di definire il problema ontologico del controverso rapporto tra noi e la natura madre.
È questa prospettiva a svelarci l’orizzonte della crisi climatica ecologica in corso da oltre due secoli ed è in questo orizzonte che va letto “Filosofia tra i ghiacci” (Meltemi Edizioni) che rappresenta un unicum, non solo per i notevoli contenuti, ma anche per la storia personale dell’autore, il filosofo, glaciologo e musicista valtellinese Matteo Oreggioni che scrive sull’importanza di “pensare come un ghiacciaio”.
Il 2025 è il primo Anno Internazionale per la Conservazione dei Ghiacciai, che Unesco ha presentato il 21 Gennaio scorso, dichiarando il 21 Marzo Giornata Internazionale dei Ghiacciai. La fusione dei ghiacciai è un simbolo che non offre ambiguità alla nostra percezione del dramma climatico in atto. Ogni anno questo processo disperde la stessa quantità di acqua utilizzata dall’intera umanità in trent’anni. Oreggioni ha intrapreso un cammino, ha fatto una scelta di vita, ha capito come l’esercizio della filosofia in conversazione con la montagna può, e deve, offrirci nuovi strumenti di pensiero, cognitivi, ma anche identitari. La filosofia tra i ghiacci non è mera attività speculativa: al contrario, è tra le pratiche più empatiche per addentrarci nella rapidità dei cambiamenti, invece che rimanerne semplicemente vittime: “I ghiacciai, per chi sa ascoltarli, recitano un canto funebre e quel canto funebre ci vede partecipi in prima persona, protagonisti e coautori”, si legge nel libro. “Quando cogliamo il fatto che i ghiacciai ci stanno abbandonando per sempre, che il processo è planetario e irreversibile ci rendiamo conto immediatamente di essere parte di un processo, e risulta figurativamente più comprensibile la portata della nostra azione all’interno della crisi ecologica del clima”. Volontario del Servizio Glaciologico Lombardo, nel suo testo offre dati, ma ci porta oltre, costringendoci, per citare un intero capitolo, a guardare l’abisso, non per annichilirci, ma per prendere coscienza.
Mondo instabile
Un percorso necessario, per introiettare idee che risuonano dentro di noi ma alle quali è spesso difficile visualizzare perché parte di un mondo instabile, in continuo mutamento. È un libro che cammina con noi, questo, ci accompagna per aiutarci ad affrontare questa oscillazione che caratterizza la nostra era, l’Antropocene e l’ormai avvenuto passaggio da un paradigma di pensiero che si era sviluppato nell’Olocene, simbolo della stabilità climatica, ma che ora non può funzionare, intrappolati come siamo in un sistema da noi stessi congegnato: la rivoluzione industriale e l’immissione di gas clima alteranti nell’atmosfera terrestre rappresentano la frattura dalla quale osservare “il successo di specie” di homo sapiens che però ci ha resi carnefici e vittime di noi stessi: «Come possiamo rappresentarci la crisi ecologica del clima essendo al suo interno? Questa è la questione centrale o esistenziale».
La scienza non basta
Sì: questa è una questione esistenziale e dalla quale derivano tutte le altre. La Filosofia, l’esercizio del pensiero, la pratica dell’indagine interiore, ci spiega da tempo che la tecnica e la Scienza non possono dare le risposte che la psiche umana ha bisogno di avere per affrontare un paradigma nuovo e ancora inafferrabile, ma che impone una rapidità di adattamento che nessun essere umano nella Storia ha dovuto affrontare a questo ritmo accelerato per migliaia di volte rispetto a tre secoli fa. Come decifrare qualcosa di noi in questo contesto? «La filosofia è strumento potente per interrogare noi stessi e il mondo senza delegare al di fuori di noi. È un esercizio, è uno stile, una postura, è pensiero che pensa il pensiero mentre affrontiamo la vita e i problemi grandi o piccoli. Il punto non è esistere ma come esistere, dove l’accento sta sul come, che è scelta, responsabilità. La responsabilità di porci le domande giuste sul tempo che ci è capitato in sorte. Ecco, questo vuol dire fare filosofia».
Un uomo immerso nella geografia, l’energia creativa che si riflette nella precarietà della vita, che è anche la precarietà della filosofia, dato che il pensiero è un fiume che scorre: l’acqua non è mai la stessa, ma il letto del fiume è quello e si modifica nel tempo. Elaborare tutto questo è dunque imprescindibile: «Nietzsche diceva che i pensieri migliori nascono camminando. Il pensiero è corpo in movimento, è la danza tra l’organismo e l’ambiente, è meraviglia e terrore allo stesso tempo, è messa in questione, sospensione. È nel corpo in movimento che i pensieri si mettono in azione e alla prova. La montagna con le sue salite e le sue discese, i suoi luoghi, i suoi saperi e i suoi rimandi è una palestra, è un invito al pensiero». Fino all’incontro, lo sguardo reciproco tra il ghiacciaio fisico e quello simbolico, che assorbe il “pensiero” della grande creatura vivente, il minerale che chiamiamo ghiaccio: «Platone nel Simposio scrive che si impara per fascinazione. Ecco, già Platone aveva colto che c’è qualcosa che precede la razionalizzazione. C’è un grado emotivo, una vibrazione, che è già insegnamento, che è apertura, una messa in ascolto che è possibilità di domanda. Diciamo che il ghiacciaio prima che un’occasione speculativa è presenza e domanda, una faglia tra la vita vissuta e la vita saputa».
Barry Lopez, nei suoi capisaldi come “Sogni Artici” e “Horizon”, nei lunghi periodi trascorsi sui ghiacci polari a indagare lo spazio tra il pensiero e la percezione ha elaborato la geografia profonda, che racconta anche lo “struggimento”, il tema della perdita ma anche della presa di coscienza, che appare ormai come unica risposta alla fatidica domanda dell’uomo comune, “Sì, ma io che cosa posso fare ormai?”. Questo è, in fondo, lo stimolo più importante del libro di Oreggioni: «La perdita è evidente, siamo dentro a qualcosa di enorme, siamo nell’accelerazione dell’accelerazione. Viviamo un tempo di profonde crisi: ecologiche, climatiche, militari, politiche, etiche. Crisi che abitiamo e che ci ristrutturano. Un esempio tra i tanti è l’ecoansia, sempre più diffusa e pervasiva. Viviamo tempi difficili, profondamente perturbanti. È difficile dare forma alla perdita. Da un lato una maggior consapevolezza può portare al crollo di riferimenti che mettono in discussione la nostra progettualità e i nostri desiderata. Dall’altro lato abbiamo la negazione, il rifiuto e l’ideologizzazione del trauma, il negazionismo. È per questo che la partita è massimamente esistenziale. Ma non tutto è perduto perché, citando Hölderlin, Lì dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva».
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