Principesse abusive
Incontri in riva al lago

Nobiallo, Menaggio, 1960

Mi scambiano per Josephine Baker, alle volte, ma sono più sottile. Anni di stenti e preoccupazioni, signori, sempre a nascondermi. Non che una mulatta come me passi inosservata, regale nel passo e nel sangue, fiera come ogni principessa etiope. Il mio nome, Romanework, lo dico sottovoce, contraendo la fronte. Così la gente mi invita a proseguire e io, riottosa, dico anche il cognome: Selassié. Proprio quella, la figlia nel Negus. Macché morta negli anni Quaranta: regina senza regno, ecco, in fuga dalle persecuzioni, unica ricchezza i diamanti che ho invece degli occhi.

I più ci credono, li vedo commuoversi, le vostre lacrime sono miele, oh se lo sono, come le vostre offerte. L’Etiopia è tanto lontana e ritornarci ha un prezzo. E allora mano al borsello, o arrivano con il tè e un gioiellino. “Il poco che posso fare”, borbottano, e gli prometto una terra, un giorno, nel mio reame.

La casa dovrebbe essere questa. Mi hanno detto di diffidare da lei, la contessa Marga Boodts è una tigre, dicono, sotto l’aspetto canuto e fragile, sotto i capelli gonfi, da vecchina. Tigre contro pantera, allora. Non me ne andrò senza il suo sostegno per un vitalizio perché Marga, di nome, in realtà fa Olga e di cognome Romanov. Primogenita dello zar, sfuggita al massacro di Ekaterinenburg, unica erede della sua casata.

La domestica mi apre con una riverenza, si inchina e mi fa strada nella penombra del corridoio.

«Avete fatto buon viaggio? La Contessa è in giardino a godersi la bella giornata» e sorride, ma non le rispondo. La sovrana di Etiopia non parla con le inservienti.

Mi viene incontro, piccola e luminosa, alzandosi dalla panca, il lago è una lingua scintillante che la sbianca. Mi porge la mano e trattiene la mia. Nella stretta, mi cerca lo sguardo.

«Benvenuta nel mio palazzo» sorride, e mi fa accomodare.

Apre subito il mio dono. Dal sacchetto di velluto al suo palmo, due piccoli diamanti proiettano strisce di colore.

«Diamanti etiopi per la sovrana di Russia», abbozzo mentre li soppesa.

Vetraglie smerigliate così bene da ingannare gli allocchi. Sorride, riconoscente, la vecchia tigre, e ora posso mordere e attaccare, raccontando il mio triste soggiorno di prigionia, separata dai figli, e le feste da ragazza, con fuochi danzanti e la nostalgia del nostro leone di corte.

Lei sorseggia il tè, annuisce, e il suo sguardo si fa dolente: «Vi capisco» bisbiglia.

Le stringo la mano, allora, perché continui, perché due esuli, due perseguitati, hanno lo stesso cuore, e allora amatemi, sovrana dei ghiacci, e prendete sotto la vostra protezione la dominatrice delle savane.

«Dovrete portare pazienza» mi dice «in molti dubiteranno».

Si scosta i capelli, allora, e ruota la testa. Tra gli sbuffi bianchi e grigi serpeggia un callo rosa chiaro, che si allunga fino a metà cranio. La prova dell’operazione subita da bambina, mi spiega. Le carte si possono contraffare, mentre la carne è autentica. Così ha convinto il capo della Casa di Prussia, così ha tolto ogni incertezza alla baronessa Elisabet, che l’aveva conosciuta da ragazza.

«Ma quanto dolore, quanto dolore. E c’è ancora chi mi perseguita» si asciuga l’angolo dell’occhio, poi mi porge la mano. Gliela bacio. È tiepida e la mia bocca affonda.

«Mi ricordo Anastasia, in ginocchio a pregare, nella cantina Ipatiew» fa, puntando gli occhi nel vuoto, e sento il brivido del suo ricordo attraversarla e poi passare a me. «E mi rincresce che ci siano truffatrici come quella Anna Anderson, che si fingono lei. Gentaglia».

Annuisco e le allungo il braccio sulla spalla. Siamo sorelle, ora, nel dramma.

«Chi, come noi, ha patito, sa».

Lei ha perduto tutto, dice, tutto quanto. Quel giorno terribile, lo ricorda così bene.

C’era Dimitri, un giovane che conosceva, col fucile puntato, e lei lo ha chiamato per nome. Dimitri l’ha abbattuta col calcio della rivoltella e poi gli spari e i corpi di tutta la sua famiglia su di lei. Due giorni così, a fingersi morta, ma poi Dimitri è tornato e l’ha chiusa in un sacco di fieno, ha sostituito il suo corpo con quello di una cameriera, sorpresa a rubare dai cadaveri imperiali. E così, via per il mondo, sola con il suo dolore e un nome nuovo, Marga Boodst. Il nome di una morta a lei, viva due volte, affidata dal Kaiser di Germania alla baronessa Elisabet e ora qui, in esilio, a contemplare il lago.

La abbraccio mentre spinge con la fronte sulla mia spalla, mentre si asciuga il naso e la bocca, e infine mi guarda serena, allargando un sorriso.

«Che posso fare per voi, dunque» mi domanda, con un pizzico alla guancia.

«Il vostro riconoscimento, quanto conterebbe per me. Una vostra firma basterebbe a farmi avere un vitalizio, a ridarmi la dignità di un nome».

Apre la mano e mi mostra il mio dono, due gocce di luce sul suo palmo.

«Una contessa distingue il vetro dai diamanti» dice «perché il vetro vuole splendere, ma non splende mai».

L’inserviente non mi fa più alcuna riverenza mentre mi sospinge per il corridoio, la Contessa deve riposare. Provo a resistere, c’è stato un malinteso. Le mie suppliche rimbombano, restituita alla penombra, e ora, fuori dal cancello, al sole, mi sento così affamata di luce.

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