Quei nuovi italiani, trionfatori discriminati

Un milione gli immigrati di seconda generazione. Si sentono italiani, come si è visto agli Europei, eppure molti di loro scelgono di emigrare di nuovo. La testimonianza di un professore universitario che li ha intervistati nel Regno Unito

In quanti ci siamo emozionati di fronte a quell’Italia che corre, che salta e che lancia di tutto e di più e che vince. E vince tanto. Mai come prima nella sua storia. Alla fine degli Europei di atletica appena conclusosi a Roma, l’Italia è prima assoluta con 11 ori, 9 argenti e 4 bronzi. Un totale di 24 medaglie, che lascia ben indietro tutte le altre nazioni europee. Al popolo di santi, poeti e navigatori di mussoliniana memoria, circa novant’anni dopo ci siamo riscoperti, sempre a Roma, un popolo di atleti.

Bella questa. Chi mai se lo sarebbe aspettato. Sì certo, in passato abbiamo avuto dei grandi atleti come Berruti, Mennea e Simeoni. Ma sono state eccezioni, più che la norma. Oggi invece gli atleti vittoriosi sono tanti. E non ci sono solo Tamberi, Tortu o Palmisano. Ci sono anche Ali (madre nigeriana e padre ghanese, ma cresciuto ad Albate, periferia di Como), Crippa (nato ad Addis Abeba, ma milanese d’adozione), Battocletti (madre marocchina e padre italiano, nata e cresciuta a Cles, in Trentino), Iapichino (nota figlia d’arte - Iapichino italico padre e Fiona May, madre giamaicana-inglese), Jacobs (tutti o quasi sanno chi è), Simonelli (padre italiano e madre tanzaniana, nato in Africa ma cresciuto a Roma) e molti altri. Sono loro la nuova faccia della nazione, di quella Italia che corre, che salta e che lancia e che vince tutto o quasi; celebrati da noi tutti, con il gran capo della nazione, Mattarella, in prima fila.

A televisore spento

Ma provate a spegnere il televisore o a chiudere le pagine del giornale. Dimenticatevi di quelle facce che avete visto avvolte vittoriose nel tricolore. Immaginate invece di incontrarle per strada, sull’autobus o in un bar. Quanti di noi li riconosceremmo come italiani, come parte di noi - “noi” inteso qui come italiani bianchi? Perché questo è il vero paradosso di un’Italia che acclamiamo negli stadi, ma che spesso evitiamo, marginalizziamo se non proprio insultiamo nel nostro quotidiano.

Ma di fatto “loro” sono come “noi” - parlano con il nostro stesso accento, mangiano le stesse cose che mangiamo noi, si vestono allo stesso modo e ridono delle cose di cui ridiamo noi. Però la faccia, quella faccia non ha il nostro colore e allora fatichiamo a vederli come parte di “noi”. Più che italiani, li vediamo come quegli immigrati appena sbarcati col barcone a Lampedusa e finiamo così per trattarli allo stesso modo. Questo è il grande corto-circuito che caratterizza la nazione italiana oggi. Un Paese che continua a pensarsi come bianco e cristiano (lasciamo perdere che poi nessuno o quasi vada più in chiesa, se non a Natale e, forse, a Pasqua), mentre di fatto è un Paese colorato. E colorato assai. I figli degli immigrati, la cosiddetta seconda generazione - anche se loro preferiscono farsi chiamare italo-marrochini, italo-ghanesi, ecc. o anche Afro-italiani - sono circa 1 milione. Sono tanti, ma di fatto sono invisibili, a meno che non segnino un gol per la nazionale (ricordate Balotelli?) o vincano appunto una medaglia correndo, saltando o lanciando qualcosa.

Politici ed elettori

L’Italia fatica a vedersi colorata. Se un signore che dice che un’altra atleta vincente come Paola Egonu (nata a Cittadella da genitori nigeriani) ha poco a che fare con l’Italia, eppure prende più di mezzo milioni di voti alle Europee, ed un altro che dobbiamo difendere la “nostra razza bianca”, eppure si trova a governare la regione più ricca d’Italia, beh allora abbiamo un problema. Un problema di integrazione. Ma il problema ce l’abbiamo noi, non loro. Se voi ascoltate le interviste dei vari Ali, Crippa e Simonelli così come quelle di tutti gli altri ragazzi e ragazze di “seconda generazione”, vedrete che il problema non sono loro che non vogliono essere come noi. Loro non hanno alcun dubbio di essere e di sentirsi italiani. Il problema siamo “noi”, bianchi italiani, che fatichiamo ad accettarli come parte della nazione. Che un italiano non possa che essere bianco (e cristiano) è un assunto che tutti o molti di noi ancora mantengono, nonostante che, a partire dal 1973, l’Italia non sia più un Paese di emigrazione ma di immigrazione. Più di cinquant’anni sono passati, ma oggi come ieri siamo ancora qui, incapaci di comprendere ed accettare questa trasformazione demografica del Bel Paese.

Non sorprende, quindi, che tra le migliaia di giovani che ogni anno lasciano l’Italia (tra il 2011 e il 2021, circa mezzo milione di italiani tra i 18 e i 34 anni si sono trasferiti all’estero), i ragazzi e le ragazze di “seconda generazione” siano molto numerosi. Alcuni di loro, che vivono qui in Inghilterra, li ho intervistati recentemente, per un mio progetto di ricerca. Il tema ricorrente è sempre lo stesso: lasciano l’Italia perché non vedono prospettive economiche, ma anche perché l’Italia non li riconosce come figli propri. Rifiutati dalla loro nazione, alcuni di loro smettono di considerarsi italiani e riscoprono la loro altra identità, quella associata ai loro genitori. Un’identità che in molti dicono impossibile da abbracciare in un Paese come l’Italia, saturato di bianchezza. (Apro parentesi: che poi gli italiani molto bianchi non lo siano, basta guardare a cosa scriveva nel 1901 un giovane antropologo siciliano, Alfredo Niceforo, sulla “razza negroide” della gente del Sud, in contrapposizione alla razza ariana degli italiani del Nord. Distinzione poi migrata negli Stati Uniti dove a inizio Novecento i migranti italiani erano equiparati agli Afro-Americani. Chiusa parentesi).

Ripensarsi come nazione

Il problema dell’integrazione è quindi quello di una vecchia Italia, che continua a pensarsi bianca (e cristiana) e che fatica a venire a patti con la nuova Italia, composta dai figli della migrazione. Il fatto stesso che la legge sulla riforma della cittadinanza, che prevede un percorso più agevole per la naturalizzazione dei figli degli immigrati, languisca in Parlamento da decenni è un chiaro segnale di questa incapacità, sia da parte della politica sia da parte della società, a ripensarsi come nazione.

Bene quindi gioire ed esultare per le vittorie dei “nuovi italiani”, ma se vogliamo che queste vittorie lascino il segno, l’Italia tutta deve cambiare passo, mettersi in pista e correre verso un futuro più inclusivo, aperto al cambiamento, e riconoscersi per quello che già è e lo sarà di più in futuro. Una società multirazziale, dove l’Azzurro dei nostri atleti, come scrivono Valerio e Vanni Spinella nel loro libro “I colori dell’azzurro. Dieci storie di atletica senza confini” (Ultra, 2024), è fatto appunto di tanti colori. Sarà bene ricordasene quando, a gara finita, spegnamo il televisore o chiudiamo le pagine del giornale.

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