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Domenica 05 Marzo 2023
Stalin torna di moda nella Russia di Putin
A settant’anni dalla morte del dittatore gli vengono dedicate nuove statue. E nelle mire espansionistiche di oggi non è difficile vedere una riproposizione dell’impero di allora
Roberto Fabbri
Settant’anni dalla morte di Stalin. Un tempo lunghissimo, che insieme con i verdetti della Storia e le scelte che già negli anni Cinquanta del secolo scorso avevano fatto i suoi successori ai vertici dell’Unione Sovietica, avrebbero dovuto fare di lui un personaggio del passato. Invece, complice il ritorno al Cremlino di una dittatura personalistica appena mascherata dal persistere di istituzioni formalmente democratiche, la figura di Stalin sta tornando alla ribalta in Russia dopo oltre sessant’anni di oblio.
Lo scorso 2 febbraio, ottantesimo anniversario della vittoria sovietica sui tedeschi che diede una svolta alla seconda guerra mondiale proprio nella città che si chiamava Stalingrado, Vladimir Putin ha tenuto un discorso nel quale ha tentato di paragonare quello storico trionfo sui nazisti (veri) di allora a quello contro quelli immaginari che sta inseguendo da un anno in Ucraina. Nell’occasione, ha inaugurato solennemente un monumento: non ai caduti sovietici, che furono circa un milione, ma proprio a Stalin.
L’ideologia dominante
Questo gesto ha una spiegazione precisa. Putin ha ormai da anni assemblato, su consiglio del filosofo Aleksandr Dugin, un’ideologia nazional-imperiale panrussa che pretende di tenere insieme figure di estrazione politica anche molto diversa, accomunate da una visione di grandezza nazionale. Stalin è una di queste. Nella retorica ufficiale putiniana, e ormai perfino nei libri di Storia per le scuole, il sanguinario dittatore succeduto a Lenin non viene però proposto come un dirigente di punta del regime sovietico, ma come un condottiero vincente che seppe condurre la grande Russia alla vittoria nella Guerra Patriottica, come i russi chiamano la seconda guerra mondiale.
Vale la pena di citare il finale della biografia di Stalin di Oleg Chlevnyuk (2016): «Quanto è grande il pericolo che una miscela di ignoranza della storia, rabbia e malcontento sociale fornisca terreno fertile per le menzogne filostaliniane? La Russia del XXI secolo rischia di ripetere gli errori del XX?». Pare di sì.
Corsi e ricorsi
In Russia si parla oggi addirittura di restituire il nome di Stalingrado, cancellato per volontà del suo successore Nikita Khrushchev nel 1956, alla città che ancor oggi si chiama, più anonimamente, Volgograd. Il solo fatto che se ne parli, la dice lunga su come stia cambiando - al passo del gambero - la Russia di oggi. I conti con Stalin sembravano chiusi per sempre già dal lontano febbraio del ’56, quando Khrushchev tenne, al famoso XX Congresso del partito comunista sovietico, un discorso spartiacque: vi denunciò (come se non fosse stato, insieme con i suoi colleghi che lo spalleggiavano e con quel Lavrentij Beria che aveva già fatto liquidare, complice in tutto e per tutto del “Grande Georgiano”) i crimini dello stalinismo contro il popolo e contro gli stessi membri del partito (le terribili “purghe” del 1937-38), le gigantesche dimensioni del terrore e delle stragi perpetrate in nome della rivoluzione socialista, il grottesco culto della personalità del dittatore.
Khrushchev fece aprire gli archivi segreti per documentare questi crimini, ma non per restituire la libertà ai cittadini: usò piuttosto le informazioni in essi contenute per ricattare i suoi complici e facilitare la sua scalata al potere, e si limitò ad ammorbidire leggermente la dittatura.
Era stata tutta colpa di Stalin, insomma. La sua memoria fu condannata, il suo corpo imbalsamato rimosso dal mausoleo e sepolto lungo le mura del Cremlino (dove tuttora giace), le sue statue fatte sparire da tutta l’Urss e dai Paesi satelliti dell’Europa orientale. Khrushchev impose un ritorno ufficiale all’ortodossia leninista, pretendendo che quasi trent’anni di stalinismo non fossero stati altro che una deviazione da essa: il buon Lenin e il cattivo Stalin, insomma, secondo una vulgata ufficiale che fu fatta propria anche dai partiti comunisti occidentali.
Stalin, in realtà, aveva appreso proprio da Lenin - come rivelato inequivocabilmente dagli archivi del Cremlino aperti in epoca gorbacioviana - il metodo della persecuzione feroce dei “nemici del popolo”, e i primi campi di concentramento del futuro Arcipelago Gulag magistralmente descritto da Aleksandr Solgenytsin erano stati aperti proprio da Lenin alle isole Solovki nel Mar Bianco, già nel 1918.
È però un fatto che alla fine della sua vita, tra il 1922 e il ’23, Lenin avesse colto le inquietanti tendenze di Stalin al satrapismo e avesse cercato - invano - di mettere in guardia i vertici del partito dal rischio di una dittatura personale. Una dittatura che effettivamente si instaurò e mantenne però sempre delle connotazioni ideologiche fortissime.
Servirebbe una biblioteca per riassumere gli orrori del suo regime, fondato sul potere assoluto attribuito ai servizi segreti. Stalin perseguitò senza misericordia i “nemici di classe”, fossero essi i borghesi o i liberi pensatori o i piccoli proprietari terrieri (i cosiddetti kulaki): i primi li fece arrestare e incarcerare a milioni, costruendo un mostruoso sistema di lavoro forzato di massa, i secondi - soprattutto in Ucraina a metà degli anni Trenta - li sterminò per mezzo di una carestia indotta dal sequestro sistematico dei raccolti. È quell’ Holodomor che gli ucraini non hanno mai perdonato ai “fratelli maggiori russi”, che oggi stanno tornando in casa loro sui carri armati di Vladimir Putin, il cui vero obiettivo si estende però alla restaurazione del dominio di Mosca in tutta l’Europa orientale: l’impero di Stalin.
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