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Si arriva a Jesi da settentrione seguendo la costa Adriatica e, poco prima di Ancona, si risale la valle del fiume Esino, che ha nel nome la radice prelatina di “ais”, così come il fiume Isonzo e Isarco. L’Esino scorre placido tra isolotti di ghiaie circondato da macchie di salici, di alti pioppi e frassini, seguito da verdi e morbide colline. Subito va fatta una doverosa sosta presso l’Abbazia di Chiaravalle, dalle bellissime forme romaniche perfettamente conservate. Il monastero benedettino cistercense, che porta lo stesso nome della grande abbazia alle porte di Milano, è stato eretto anch’esso da monaci provenienti dall’abbazia di Clairvaux (Chiaravalle) fondata da San Bernardo, a cui queste abbazie erano affiliate. I monaci cistercensi hanno, nel tempo, compiuto grandi opere di bonifica delle paludi e di incremento dell’agricoltura di cui si è giovata nei secoli tutta la valle.
Imboccando la statale 76, si ha la sensazione di entrare in una sorta di piccolo eden fuori dal tempo che ha come tetto le infinite e parallele vigne chiare del Verdicchio sulle colline e le sparute contrade che spuntano tra le fronde degli alberi come uccelli.
In pochi chilometri, si lascia l’agitazione autostradale e l’affollamento ottundente degli autogrill e si entra in un altro scenario dai toni caldi e naturali, dai ritmi composti e gentili. Le spalle di chi sta alla guida, improvvisamente si rilassano e lo sguardo torna a spaziare e a contemplare il paesaggio intorno. Si riprende a chiacchierare piacevolmente e a scambiarsi opinioni e desideri di pregustare un po’ di tutta questa bellezza tanto attesa, lenta ed antica. Così cominciamo a passeggiate per strade lastricate e lungo le mura cercando una porta che ci faccia entrare nel centro storico della bella e nobile città di Jesi, nominata Città Regia da Federico II di Svevia, già nel XII secolo, perché il futuro imperatore ebbe qui i suoi avventurosi natali. Infatti venne al mondo il 26 dicembre 1194 sotto una grande tenda- padiglione, nella piazza principale, che oggi porta il suo nome. Sua madre, la regina normanna Costanza D’Altavilla attraversava l’Italia per rientrare a Palermo nel suo regno di Sicilia ed ebbe le doglie che la costrinsero a fermarsi a Jesi e a dare alla luce, con tanto di presenza di notai, prelati e alti funzionari che dovevano documentare e verificare la cosa, il magnifico figlio Friedrich Ruggero di Hohenstaufen, che diverrà lo “Stupor Mundi” e illuminerà del suo genio tutta l’Europa e il Mediterraneo financo a Gerusalemme che conquistò senza guerre e spargimenti di sangue, con un buon lavoro diplomatico con il sultano Al-Malik al-Kamil, ampliando i contatti culturali e commerciali. E i giorni tumultuosi che stiamo vivendo ce lo fanno apprezzare oggi ancor più.
Dopo aver parcheggiato l’auto, passiamo davanti all’imponente Torrione del Montirozzo, che guarda verso nord-est e che è parte della lunga e integra cinta muraria, intervallata da alte torri di difesa e torrioni angolari, edificati sulle mura romane, poi ampliate nel medioevo e di nuovo rinnovate nella metà del ’400 da due grandi architetti militari toscani: il senese Francesco di Giorgio Martini e il fiorentino Baccio Pontelli.
Entriamo quindi dall’antica Porta di San Floriano, oggi Garibaldi, e ci ritroviamo in piazza Federico II, dove davanti alla sua recente, incombente e magniloquente statua in bronzo, sorge un ampio e suggestivo museo multimediale a lui dedicato. Nella piazza, che corrisponde all’antico Foro Romano, sorgono i due più significativi e antichi edifici religiosi: il duomo di San Settimio e la chiesa di San Floriano, dove si svolgevano le più importanti assemblee e commemorazioni cittadine, ormai da un secolo sconsacrata ed oggi ospitante un Teatro Studio dedicato alla grande attrice Valeria Morriconi. La piazza è ornata da bei palazzi storici tra cui il rinascimentale Palazzo Honorati dal bel portale realizzato in pietra bianca d’Istria; sul lato opposto c’è l’elegante palazzo Balleani, la cui facciata principale è incentrata su una notevole balconata rococò dalla sfarzosa ringhiera in ferro battuto sorretta da quattro imponenti telamoni.
Ma l’edificio oggi più importante, anche per la sua tripla funzione di museo - al piano terra c’è l’archeologia, al primo la pittura antica, al secondo la pittura contemporanea - è la bella e imponente residenza dei Marchesi Pianetti, che è più il raro ed illustre esempio in Italia del Rococò di influenza asburgica. Ricordo ancora l’emozione nel rivedere i tre notevoli dipinti del pittore veneto Lorenzo Lotto: “Santa Lucia davanti al giudice” dalla potente vivacità dinamica sorretta da un cromatismo dai vivissimi rossi e gialli in una scena che anticipa certi ritratti di popolani che saranno propri di Caravaggio. C’è poi la “Deposizione nel sepolcro”, di ispirazione Raffaellesca, dipinta nelle Marche nel suo passaggio da Roma a Bergamo che era allora al confine della Repubblica di Venezia e dove operò a lungo. La terza opera è la “Pala di San Francesco al Monte”, un dipinto in due sezioni. Quella principale, con la Madonna col Bambino tra San Giuseppe e San Gerolamo, ha uno scorcio di paesaggio sulla parte alta sinistra, dove si vede il muro di un giardino da cui sporge un’alta rosa i cui petali sono sparsi sul pavimento davanti a Maria, come si usava nelle cerimonie sacre già nell’antica Roma. Nella seconda parte sulla lunetta si vedono contrapposti San Francesco e Santa Chiara. Il primo lo si vede di spalle mentre guarda il cielo ed ha le mani tese ad accettare le stimmate. Chiara invece è di trequarti, tiene in mano con espressione assente e trasognata un ostensorio sullo sfondo di un grande panno rosato.
Di quel viaggio che poi proseguimmo nelle Marche sulle tracce delle opere di Lorenzo Lotto, ricordo ancora la geniale e grandiosa “Crocifissione” di Monte San Giusto nella chiesa di Santa Maria della Pietà, a una cinquantina di chilometri a sud di Jesi, quindi la meravigliosa “Annunciazione” nel Museo Civico di Recanati, con la buffa rappresentazione del famoso e demoniaco gatto nero spaventato in contrasto con lo stupore attonito di Maria. L’ultima tappa fu presso la Basilica di Loreto dove Lorenzo Lotto risiedette a lungo e si fece “oblato” donando all’istituzione tutti i suoi beni e i suoi ultimi dipinti e soprattutto sé stesso e dove, quasi cieco, dipinse il suo ultimo quadro, che virava scolorandosi verso il bianco e nero: la “Presentazione al Tempio”. Lotto morirà qui due anni dopo nel luglio del 1557 e qui è sepolto.
Quello che mi ha sempre colpito ed anche piacevolmente sorpreso parlando con gli amici di Jesi è il sentimento di fierezza verso la loro città che è sempre stata indomita fin dalla sua nascita con la sua fondazione da parte degli umbri, mentre la vicina Ancona era di origine dorico-siracusana.
A Jesi si stanziò a lungo la tribù celtica dei Galli Seni, che provenivano da Sens in Francia, da cui la vicina Senigallia, questo prima dell’occupazione Romana del 295 a.C. quando iniziò la latinizzazione del territorio. Alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel V secolo d.C., fece parte della regione governata dall’Esarca di Costantinopoli come componente della Pentapoli Montana insieme a Gubbio, Urbino, Cagli e Fossombrone ed infine con la sua nomina a Città Reale, da parte di Federico II, ebbe garantita una certa autonomia anche dopo il passaggio tra il IX e il X secolo allo Stato della Chiesa. Questo miscela particolare e questa sedimentazione di più culture da quella italico-latina, a quella celtica, a quelle greca, hanno donato alla città di Jesi una personalità davvero unica e una forte identità che si sono espresse successivamente nella grande intraprendenza economica e culturale; con una consapevolezza di aver coltivato nel tempo un “solidus equilibrium” tra città e campagna, tra artigianato e commercio, tra bellezza architettonica e urbanistica e lo sviluppo dell’arte, ricordando anche il musicista e compositore jesino Giovanni Battista Pergolesi cui è dedicato il teatro Lirico.
Immagino Jesi come una sorta di Gömböc, che è il nome ungherese di un solido convesso la cui costruzione in plexiglass risale a una ventina di anni fa, che ha la proprietà di tornare da solo nella posizione stabile quando viene messo in ogni altra posizione, così come il guscio di molte tartarughe che permette loro di riprendere facilmente la posizione corretta quando vengono rovesciate.
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