“Voci di lombardia”: la lezione del Nobel

L’omaggio per i settant’anni dalla morte di Enrico Fermi, padre della fisica nucleare, che nel 1954 a Varenna partecipò ai corsi organizzati da Giovanni Polvani

Varenna, Villa Monastero, 1954

Questioni relative alla rivelazione delle particelle elementari, e alle loro interazioni con particolare riguardo alle particelle artificialmente prodotte ed accelerate. Il tema. Sedici. Le lezioni. Uno, l’uomo.

Davanti a me, eppure non mi vede. Cammina un poco curvo, punta solo di sbieco il lago, una ferita blu che gronda luce. Particelle si distaccano e levitano, condensando. Sulla superficie dell’acqua uno strato indistinguibile, gassoso. So che lo sta studiando, in un recesso della mente. Deve avere una domanda minuscola, che ha innescato lo svolgersi di un problema. Parentesi e potenze si avvicendano, formule risorte dalla sua rete neurale. Riflessione, rifrazione. Lo sta risolvendo senza accorgersene, un automatismo.

I pantaloni svasano, stretti in vita da una cintura nera. Anche la camicia bianca gli pende addosso, si gonfia e si sgonfia come una vela. Eppure lo ricordo, sorprendente, nuotare nell’acqua gelida. Un corpo così, pensavo, per proteggere quella mente. Una mente così.

È piccola, la sua figura, nel giardino di Villa Monastero. A quest’ora del mattino è l’unica cosa che si muove, attraversando il viale ghiaioso. L’ombra striscia tra i roseti, supera i cedri del Libano, si proietta sui fusti delle palme, sulle agavi e le dracene.

Ha un’incertezza, ora, le mani spinte dentro le tasche, l’aspetto del ragazzo che ricordavo. Un mercatino di Campo dei Fiori e lui, appena arrivato a Roma, più di trent’anni fa. Lo sguardo accigliato, dietro le lenti opache. La giacca marrone consunta ai gomiti, mentre acciuffa un tomo dal titolo illeggibile. Lo sfoglia, una scintilla nel suo sguardo, un piccolo chicco di riso che si infiamma mentre scorge simboli matematici. La notte a spiarlo, sveglio, sottolineare quel libro di Andrea Caraffa. Grazie a Dio è in latino e non in greco, mi dice la mattina.

Credo che ad averci avvicinato sia stato l’orgoglio timido, un senso di sé che va oltre i meriti, i risultati. Il poter smontare l’universo nelle sue componenti, utilizzando il puro pensiero. Poco importa che lui, oggi, sia Enrico Fermi e io un suo gregario.

Lo osservo, a volte, quando è in mezzo agli altri. Si finge aperto ma mantiene una distanza. Almeno, quando non parla di fisica. Ieri, ad esempio, risate al molo con Heisenberg e Steinberger. Loro in costume, guizzanti nel lago, e poi sotto il sole, con i capelli umidi. Lui raccolto sugli scalini, le braccia allacciano i pantaloni, non toglie mai gli occhiali. Nel suo sorriso c’è un’ombra.

Non l’ho mai vista, prima, questa oscurità. Le sue energie si sono sempre concentrate sui problemi. Lo ricordo giovane, cercare la formula del movimento della trottola. La velocità rotonda dello sbandamento. O al tramonto, lungo i campi di grano, fermarsi ad appuntare un dato. La giacca scura, assediata dalle ombre, la rigidità di chi sta inseguendo un’intuizione. Adesso, invece, un mezzo sorriso dolente.

La Scuola di Fisica di Polvani, al suo secondo anno, conferma il suo successo. È arrivata anche la televisione. L’hanno intervistato sotto la loggia, hanno filmato le lezioni, il viavai di studenti al suono della campanella.

Cosa dirà, oggi, Amidei, l’ispettore delle Ferrovie che lo iniziò alla fisica? Cosa scorse, nel tredicenne che gli chiedeva di raccontargli la geometria proiettiva? Si sarà sentito lì, con lui, a Stoccolma, nella grande sala dei concerti, a ritirare il Nobel? Avrà tremato insieme a noi quando echeggiava la bomba?

Io c’ero, in Via Panisperna 89a, mentre le nostre menti diventavano numeriche, e l’architettura del mondo brillava tra i condensatori. Lì, a testare i problemi con Segré e Amaldi, Majorana accucciato in un angolo, probabilmente li aveva già risolti. Non avevamo nemmeno trent’anni. Quando arrivava il “Papa”, come chiamavamo Fermi, si discuteva a braccio, senza un programma. Intuizioni per associazione, risolvere problemi e chiedersi che utilità avessero. Questo ci tormentava: sapere quale fosse il nostro scopo. Quello che ci porta in una torrida settimana di luglio a seguire lezioni sui pioni, quello che ci condusse nel deserto di Los Alamos, nove anni fa, stesi di spalle, a terra, dando i piedi all’esplosione. Un bagliore più accecante del sole, nonostante gli occhiali, il fungo di polvere si allungava nell’aria e noi passavamo le dita sulle nostre scottature. La bomba: una luce che ci aveva trasceso, il negativo di una pellicola. Non c’era più Hitler, a che sarebbe servita la nostra devastazione? La sabbia era diventata vetro. Cosa fare, di quella potenza? Non gli ho mai chiesto cosa ne pensasse, forse avrebbe ripetuto che la fisica non è una scelta politica o morale. È il dovere a cui siamo destinati.

Mi chiedo se adesso, voltato verso il lago, senta come me il peso delle nostre scoperte. Ho l’impressione che possa, con un gesto della mano, elettrizzare la superficie dell’acqua, separarne gli elettroni, convertirla, come Cristo, in qualcos’altro. Ma il braccio gli scivola, stanco, e nel suo profilo, scuro contro l’azzurro lucente, intravedo l’ombra di un addio.

Mattia Conti

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