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Giovedì 06 Marzo 2025
Sorelle straniere: racconti dal mondo
Forti, sottomesse, pilastri della famiglia, analfabete, guerriere: sono le donne raccontate da chi oggi è in Italia e ha lasciato mamma, sorelle e amiche nel paese d’origine. Dall’America Latina all’Africa, passando per l’Europa dell’Est fino all’Asia e all’Oceania, tutti i racconti sulla condizione femminile oltre i confini italiani parlano di fatica, ma anche di conquiste
Como
Come viene considerata la donna nella tua cultura? A questa domanda molte donne si irrigidiscono e non riescono a rispondere. È difficile parlare della “donna rumena”, di quella “messicana” o “marocchina”: «Siamo donne e basta - commenta Roxana, originaria di Ploiești - Se ci mettessimo tutte in una stanza sono sicura che avremmo più cose in comune di quanto pensiamo». E in effetti, sia pur con velocità diverse, dall’Europa dell’Est all’Asia, dall’Oceania fino all’Africa e all’America Latina, nelle donne sta emergendo una presa di consapevolezza del proprio valore e dei propri diritti.
Da ogni continente, ecco alcuni racconti di vita
America Latina: orgoglio contro il “machismo”, tra forza e tenerezza
Paulina Sabugal, sociologa e ricercatrice presso l’Università di Bologna, è in Italia da 12 anni dopo un’infanzia e un’adolescenza vissute in Messico, noto per la sua cultura “machista” e considerato uno dei paesi più pericolosi al mondo per il genere femminile, con una media di 15 donne uccise al giorno. Un paese però che oggi ha una «Presidenta di sinistra», specifica Paulina, riferendosi a Claudia Sheinbaum, premio Nobel per la Pace nel 2007, un dottorato in Ingegneria energetica e membro dell’ Intergovernmental Panel on Climate Change dell’Onu. «L’ondata femminista di “Ni una menos” - il movimento nato in Argentina per contrastare la violenza sulle donne, racconta Paulina - ha influenzato anche il Messico. Sta cambiando moltissimo la concezione della donna. Adesso il machismo appartiene solo ad alcuni estratti della popolazione. Ci sono invece tante donne che finalmente hanno accesso all’educazione, a posti importanti nella sfera professionale e quindi sono più critiche e hanno più spazio per riflettere rispetto a prima». Forza, indipendenza e consapevolezza sono i tratti che Paulina riconosce nelle “donne messicane” - come la mamma e le amiche - ma anche e soprattutto un certo calore umano: «In Messico, per ragioni culturali o storiche, c’è un modo di vivere il femminile molto più dolce rispetto a quello che vedo qui in Italia, dove sembra che le donne si siano un po’ “indurite” per essere forti ed emancipate. In Messico, ballare, cucinare molto, fare vedere il lato più tenero non significa essere sottomesse, ma è una possibilità di mostrare amore per gli altri ».
Di questo dualismo parla anche Vanesa Guitierez, mediatrice interculturale di Migrantour: «Hanno sofferto la mia pelle e il mio corpo i primi anni in Italia perché non sentivo quella vicinanza e calore umano che trovavo invece nel mondo femminile in Messico». Una tenerezza che però non toglie spazio ai valori trasmessi dalla mamma Lucila, una guerriera: «Mi ha insegnato a essere forte, a lavorare sodo, a non appartenere a nessuno se non a me stessa. Mia mamma ha scelto di preservare nella sua autonomia, ma senza lasciare mai noi figlie. Ha cresciuto da sola me e mia sorella». Una forza tutta messicana che però Vanesa ha dovuto mettere un po’ da parte, appena arrivata in Italia, per la sua condizione di migrante: «All’inizio non riuscivo a riconoscermi. Io ho due lauree, in Psicologia e Fotografia, e mi turbava molto pensare che qui invece avevo solo due mani per pulire. Non ero bravissima nemmeno a pulire, ma era l’unica cosa che potevo fare - ricorda - Per questo, anche ora sono anche più “trasandata” rispetto a quando ero in Messico, un po’ per rendermi invisibile, per non fare notare la mia condizione di migrante. Ho dovuto lavorare sodo in Italia per riprendere quel lato di donna forte che avevo in Messico ».
Riappropriarsi della propria forza è stato il percorso anche di Carla, designer, originaria di Città del Messico: «Quando sono arrivata qui ho dovuto fare tutta da sola: la mia famiglia era in Messico, quella di mio marito in Sicilia. Adesso lo dico con orgoglio, prima lo dicevo con malinconia e tristezza». Mostra con fierezza la foto che più rappresenta questa sua parabola: «Otto anni dopo essere arrivata in Italia, il giorno del “Dias de lo muertos”, mi sono vestita da “Catrina” e mi sentivo fortissima. Mi sono detta: “guarda tutto quello che sei riuscita a fare in un paese che non è il tuo, non quello che ti ha visto nascere e crescere ma che ti ha fatto nascere come mamma e come vera messicana, forte e indipendente». Lo scatto di lei con un vestito colorato e dallo strascico lungo parla di questo.
Africa: donne, pilastri non solo della casa
«Non è che se sono donna mi classifico come “la debole”, che ha bisogno di aiuto» afferma con forza Bouchra Hakimi, raccontando di quanto oggi non tolleri che un uomo (che sia il marito, il padre o il fratello), le dica che cosa deve fare. Nel suo paese d’origine, il Marocco, non è però così semplice pensarla così, per via di norme sociali e ruoli di genere difficili da sradicare. Secondo il rapporto di HCP, l’agenzia di statistiche di stato, le donne marocchine hanno un livello di esposizione all’inattività più elevato del 37% con punte fino al 51 nelle aree rurali, rispetto ai loro colleghi maschi (13%). «L’uomo in Marocco era quello che portava a casa il pezzo di pane - ricorda Bouchra che ha lasciato il suo Paese all’età di 22 anni - ma poi il resto, come l’educazione dei figli e la gestione dei soldi, era in mano alla donna. Ancora oggi, in tante famiglie, se non c’è la donna, tante cose non vanno avanti. La mia mamma era analfabeta, ma ha educato 5 figli. Ci seguiva molto per la scuola. Adesso le cose stanno un po’ cambiando e anche le donne cominciano ad essere presenti in diversi altri settori, non solo in quello famigliare…».
Anche in Senegal, «la donna tiene in piedi la casa, cresce i figli e si prende cura di tutti», racconta Thiama Ndiaye, originaria di un Paese in cui la collettività conta tantissimo. « In Senegal, quando prendi una decisione non pensi a te stessa in primis, ma alle conseguenze che la tua decisione avrà sugli altri. Devi pensare alla comunità e talvolta sacrificare quello che realmente vuoi per lasciare spazio al volere degli altri», spiega Thiama. «Io qui (in Italia, ndr) ho avuto la possibilità di studiare, lavorare e scegliere che direzione dare alla mia vita. Le donne che sono rimaste in Senegal spesso devono invece affrontare pressioni sociali più forti, soprattutto sul matrimonio e la maternità».
Donne pilastri delle case, ma, poco a poco, anche della società: negli ultimi anni in diversi Paesi dell’Africa, si sono moltiplicate le iniziative di emancipazione femminile. Per esempio, dal Cairo, Nour Emam e un numero crescente di attiviste stanno cercando di insegnare alle donne arabe a conoscere il loro corpo, diffondendo via social video di sensibilizzazione su argomenti intimi. Dai piedi del Monte Kilimangiaro, invece, Nice Leng’ete , all’età di 9 anni si è ribellata alla pratica della mutilazione genitale, tradizione nel popolo Masai. Attivista coraggiosa, è diventata portavoce della campagna umanitaria di Amref - il cui obiettivo era quello di abolire le mutilazioni genitali femminili entro il 2030 - e nel 2018, secondo il settimanale Time, era tra le 100 donne più influenti al mondo. Ad oggi, quella giovane donna ha salvato quasi ventimila ragazze dal “taglio”, riuscendo così a scalfire una cultura ancestrale e ad essere rispettata dagli uomini del suo popolo.
Asia: con la danza ho riscoperto le mie radici
Shilpa Bertuletti, nata in India e cresciuta in Lombardia, ha riscoperto le sue origini grazie agli studi universitari e, soprattutto, ai passi della danza odissi, uno degli antichi stili classici della danza indiana, originario dello stato dell’Orissa, nell’India orientale. Per la tesi magistrale in Studi Orientali, indirizzo Indiologia, è tornata nella regione del Karnataka, da cui proveniva, e ha partecipato a una lezione aperta di danza Odissi: fu amore a prima vista. Ha deciso quindi di proseguire i suoi studi con un dottorato di ricerca per studiare la condizione femminile a Bhubaneswar, capitale dell’Orissa e luogo natale della danza odissi, e Bangalore, capitale del Karnataka.

«Praticato perlopiù da ragazze e donne adulte, questo stile di danza è oggi uno strumento di rivendicazione sociale per le classi medio-basse che mediante la pratica quotidiana (sādhanā) e l’esperienza estetica (rasa), attivano una nuova azione indipendente (agency) che indebolisce l’ideologia patriarcale dominante», si legge nell’abstract della sua tesi di dottorato di ricerca in Cinema, musica e teatro, intitolata «La danza odissi e l’identità culturale femminile nell’India contemporanea» e nata da una lunga ricerca sul campo.
La danza classica indiana odissi ha riservato infatti sin dalle origini un posto d’onore alla figura femminile e anche oggi è considerata, dalle donne che la praticano, come una forma di arte propria, attraverso cui costruire la propria identità, pur con qualche difficoltà: «Ho incontrato donne di varia estrazione sociale - racconta Shilpa, ricordando i suoi soggiorni indiani di studi universitari e di danza - a Bangalore ho conosciuto donne molto più emancipate, a Bhubaneswar donne forti, ma incastrate in alcuni costrutti sociali, come la necessità ad un certo punto di diventare mogli e madri, rinunciando alla carriera di danzatrici», rivela. «Alcune praticavano per passione - prosegue - altre con l’intento di diventare professioniste, ma anche se il fine era quello, spesso le famiglie si mettevano in mezzo e preferivano il matrimonio, a meno che non si trattasse di famiglie agiate che potessero permettersi di incentivare e sovvenzionare la carriera artistica delle figlie». Il confronto con la sua vita in Italia è stato quindi inevitabile: « Io ho avuto l’opportunità di perseguire liberamente la mia passione per la danza Odissi e di esprimermi artisticamente, mentre alcune delle mie coetanee in India affrontano ancora oggi pressioni sociali legate a ruoli tradizionali - ammette - Tuttavia, è incoraggiante osservare come molte donne in India stiano sfidando queste norme, emergendo in campi professionali e artistici, contribuendo al cambiamento sociale e culturale».
Oceania: Joyce, emanciparsi nella fede
Nell’Arcipelago delle Trobiand, all’estremo sud-ovest della Papua Nuova Guinea, «una famiglia con tanti figli maschi è considerata ricca», perché significa forza lavoro, racconta Joyce Mwabonda, ventisettenne, originaria dell’Isola da cui ha preso il cognome, oggi in formazione a Monza per diventare suora con le Missionarie dell’Immacolata. È stato proprio l’incontro con le suore ad averle mostrato un modo diverso di essere donna, più consapevole. «Grazie allo studio, ho realizzato che anche io avevo un ruolo, come ragazza, e potevo prendermi delle responsabilità» racconta. Non è scontato per chi nasce nel paese che ha un indice di diseguaglianza di genere tra i più alti nel mondo. Joyce sottolinea infatti l’impotenza delle donne papuane, considerate una “proprietà” della famiglia, un oggetto di scambio con un prezzo: «di solito i genitori scelgono i partner per le figlie perché poi la proprietà va alla tribù del marito», spiega. Nel 2019, inizialmente di nascosto dai genitori, la giovane scelse di entrare in convento, ispirata dall’esempio dato dalle missionarie presenti nella sua terra.
In molti casi infatti, la Chiesa Cattolica - i cui fedeli rappresentano il 26% del paese - supplisce alle mancanze del governo, gestendo 1/4 delle scuole dei centri sanitari, specialmente nelle zone più remote. «Grazie alle missionarie anche le femmine hanno cominciato a studiare e a mettere in pratica quello che studiano. Adesso le donne iniziano a far valere i propri diritti, pur mantenendo i legami con la propria cultura». Integrare la fede cattolica con l’identità culturale è infatti tra le sfide più significative. La credenza nella stregoneria è per esempio un fenomeno ancora presente nelle isole, generando atti di violenza, e in alcuni casi, di omicidio di persone, per lo più donne. Per questo negli anni sono nati dei centri per accogliere le vittime della violenza.
Oggi Joyce continua a studiare, ma soprattutto a sperare che anche le sue compaesane diventino sempre più consapevoli dei propri diritti.
Europa: la differenza negli occhi di chi guarda
«Siccome sono bionda e ho l’accento dell’Est, la gente all’inizio pensava che fossi qui in Italia per fare la prostituta», afferma Tetiana Kalita, fuggita invece dall’Ucraina a causa della guerra. La differenza fra l’essere donna nel suo Paese d’origine e in Italia sta tutta qui: nel modo di essere vista. Per il resto infatti, non nota differenze: «Ho tante amiche italiane e ucraine e sono tutte uguali», spiega, un po’ incredula, di fronte alla domanda “come viene percepita la donna nella tua cultura?”.
Anche Roxana Ivan, proveniente dalla Romania, sottolinea quanto, nella sua storia, siano stati gli sguardi degli altri a farla sentire “diversa”, in quanto donna e straniera: «Sono venuta in Italia per studiare all’Università, quindi posso considerarmi privilegiata - racconta - Tuttavia, non parlare bene la lingua e non avere esperienza mi ha portato a fare lavori diversi da quello che avrei potuto fare, la signora delle pulizie, la badante o la cameriera…». Secondo il Rapporto annuale Domina su dati INPS, infatti, il settore dei lavori domestici e di cura è caratterizzato da una forte presenza femminile (88,6%) e straniera (69% del totale), soprattutto dall’Est Europa (35,7%). «Il lavoro della badante è davvero difficile e pesante non tanto fisicamente, quanto mentalmente - chiarisce Roxana - La tua vita viene annullata: non hai più tempo da dedicare a te stessa, sei sempre chiusa in quella microsfera che è la casa della persona di cui ti prendi cura».
Proprio per le condizioni difficili di lavoro, il giornalista Francesco Battistini, in un reportage del Corriere della sera, aveva raccontato della «Sindrome Italia», uno stress cronico diagnosticato soprattutto nelle donne rumene, ucraine e moldave emigrate per anni ad assistere anziani nell’Europa, lontane da figli e mariti. Si tratta di un fenomeno medico-sociale, aveva spiegato Petronela Nechita, primaria psichiatria della clinica di Iasi: «C’entrano la mancanza prolungata di sonno, il distacco dalla famiglia, l’aver delegato la maternità a nonni, mariti, vicini di casa... S’è aggravata quando le romene dal Meridione, dove lavoravano nei campi ed erano pagate meno, si sono spostate ad assistere gli anziani del Nord Italia: tra le nostre pazienti ci sono soprattutto quelle che rifiutavano i giorni di riposo e le ore libere per guadagnare meglio, distrutte da ritmi massacranti». «Anni da badanti e poi nessuno a cui badare, nemmeno se stesse» aveva riassunto Battistini nel suo approfondimento.
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