Contro il tumore alle ovaie nuove armi dalla ricerca

Intervista Il nemico resta temibile ma negli ultimi cinque anni si sono fatti passi avanti grazie agli studi in campo genetico. Il ginecologo Paolo Beretta: «Abbiamo a disposizione molti farmaci efficaci con terapie a bersaglio molecolare»

Il tumore delle ovaie è un killer silenzioso, ma oggi possiamo combatterlo con la genetica. La cura di questa neoplasia passa in gran parte dalla diagnosi precoce. Purtroppo però non esistono screening e controlli preventivi. Anche quando ormai la malattia si è sviluppata essa comporta sintomi aspecifici, che molte donne sottovalutano.

Grazie agli sforzi nella ricerca in compenso ora disponiamo di nuovi accertamenti genetico molecolari che orientano meglio i medici verso terapie valide di ultima generazione.

Dottor Paolo Beretta, primario dell’Ostetricia e della Ginecologia dell’Asst Lariana, è per questo che negli ultimi anni la mortalità per il tumore delle ovaie ha iniziato una lenta discesa?

Il nemico resta temibile, ma soprattutto negli ultimi cinque anni c’è stata in effetti una rivoluzione culturale importante. Abbiamo una conoscenza maggiore della malattia grazie alla ricerca genetico molecolare. Possiamo capire meglio quale tipo di tumore dobbiamo affrontare. Prima il classico esame istologico ci mostrava una grande categoria tumorale. Oggi invece i nuovi test ci dicono anche quali cellule caratterizzano il tumore e se queste cellule sono portatrici di mutazioni genetiche. È un’informazione chiave per impostare le cure ed esprimere una prognosi.

Perché?

Perché oggi abbiamo a disposizione molti farmaci mirati. Con terapie a bersaglio molecolare che rispondono molto bene contro quei tumori che hanno delle determinate mutazioni genetiche. Succede per il tumore delle ovaie come pure per il tumore della mammella. In questi casi, oltre alla chemioterapia e alla chirurgia, possiamo sfruttare questi farmaci inibitori andando di fatto verso una cura quasi personalizzata.

Come mai ha citato il tumore al seno?

Le mutazioni in questione sono le stesse, il rischio è diciamo parallelo. In presenza di queste mutazioni si ha quasi il 50% di probabilità di sviluppare un tumore alla mammella e tra il 20% e il 30% di probabilità di sviluppare un tumore delle ovaie.

E se invece non succede?

I test genetici non devono mettere in allarme la paziente per tutta la vita, sono fatti per aiutarci ad arrivare prima e meglio alla diagnosi. Grazie a questi test genetici è inoltre possibile proporre una chirurgia preventiva. Le donne interessate, completato il percorso riproduttivo, se necessario possono sottoporsi all’asportazione delle tube e delle ovaie o delle mammelle.

È fondamentale la diagnosi precoce?

Certo, il problema è proprio la diagnosi. Il tumore delle ovaie è un killer silenzioso. Il carcinoma ovarico è piuttosto raro, è al decimo posto tra le forme tumorali e rappresenta circa il 3% delle neoplasie totali. Ma è molto letale. La sopravvivenza a cinque anni è inferiore al 40% soprattutto perché si arriva tardi alla diagnosi. Ancora oggi abbiamo difficoltà ad individuare per tempo la malattia. Nel 70%, anche nell’80% dei casi ci arriviamo tardi, quando la malattia è già in stato avanzato. Non ci sono screening e programmi di prevenzione. Dobbiamo quindi lavorare sulla familiarità, con l’aiuto del genetista che ci affianca sempre in ambulatorio per discutere tutti gli approfondimenti del caso.

Come fare diagnosi allora?

Intanto bisogna capire se all’interno della famiglia mamme, sorelle, nonne o cugine hanno avuto tumori, dove e di quale tipo. E poi occorre correlare e fare gli accertamenti utili. Inoltre è importante non sottovalutare i possibili campanelli d’allarme. Purtroppo la diagnosi è spesso tardiva perché i sintomi causati dal tumore alle ovaie sono aspecifici, molto generici. Mal di pancia, dolore pelvico, stipsi, difficoltà nella minzione, disturbi digestivi, solo in seguito aumento dell’addome. Molte volte pazienti e medici si orientano erroneamente verso patologie gastrointestinali. Ma una donna in menopausa deve pensarci. L’incidenza della patologia cresce dopo i sessant’anni, la maggior parte dei tumori alle ovaie viene identificata tra i 50 e i 69 anni.

Una volta scoperta la malattia?

Nei primi stadi la chirurgia può essere curativa. Pur impegnativa riesce a eliminare anche con tecniche mini invasive tutti i linfonodi che potrebbero essere coinvolti. Invece negli stadi più avanzati non è detto che la sala operatoria sia la scelta migliore. Bisogna sempre iniziare l’intervento sapendo con certezza di poter asportare tutta la malattia. Lasciarne una parte residua significa peggiorare la prognosi, perché la recidiva si presenta con un’elevata probabilità. Meglio quindi trattare prima il tumore con terapie neoadiuvanti, ridurre la carica tumorale e poi nel caso intervenire. Serve competenza, al Sant’Anna operiamo in media tra le trenta e le cinquanta donne all’anno.

L’obiettivo?

Dobbiamo indubbiamente intercettare prima possibile la malattia. All’inizio possiamo controllare e curare la neoplasia. Quando invece arriviamo tardi dobbiamo cercare di cronicizzare la malattia. Se non è possibile operare e guarire subito dobbiamo allora garantire la sopravvivenza della paziente con una buona qualità di vita. Oggi abbiamo gli strumenti per riuscirci.

Un consiglio?

È importante eseguire un controllo in più invece di uno in meno. Dopo i 40 anni un’ecografia o una visita ginecologica annuale possono salvare la vita. Non è facile, ma senza paure e ansie un mal di pancia persistente, un gonfiore, un dolore pelvico possono suggerire un approfondimento, una domanda durante una visita al proprio medico di medicina generale, con un rinvio dallo specialista.

© RIPRODUZIONE RISERVATA