Ansa Press Release
Lunedì 28 Aprile 2025
"Il girasole rosso", una voce poetica che custodisce la luce nell’oscurità
C’è un momento, in ogni tragedia, in cui qualcosa di vivo ancora resiste . Un’eco, un ricordo, una voce che non vuole farsi silenzio. In questo senso, il titolo della silloge di Fiorenza Fasoli Cascio , pubblicata da Europa Edizioni , ancor più che evocativo diventa profetico: "Il girasole rosso" è il paradosso, un fiore che nasce dal sole e si tinge di sangue, che guarda la luce ma porta impressa la ferita. È l’immagine che riassume tutta la raccolta: vita che fiorisce dentro la morte , speranza che pulsa nel cuore della devastazione. È il fiore che cresce su un campo insanguinato dalla storia, è la bellezza che osa germogliare là dove tutto sembrava perduto.
Rosso è il colore del martirio, della passione, del sangue versato per amore o per orrore. Ma è anche il colore del cuore, del fuoco che resta acceso sotto le ceneri. Nel giardino lirico di questa raccolta, ogni poesia è un petalo scuro che contiene riflessi d’oro. Il girasole rosso di Potsdamer Platz, al centro dell’omonima poesia “Il girasole”, è l’icona di ogni uomo che, lanciando il proprio cuore oltre il muro della Storia, ha creduto nell’istante eterno della libertà .
Laureata in Fisica con una tesi sperimentale in Fisica Nucleare, Fiorenza Fasoli Cascio ha attraversato la materia per cercare lo spirito, approdando a studi teologici che l’hanno portata a esplorare il mistero dell’esistenza con lo sguardo di chi conosce il peso specifico della luce. Il suo sguardo sul mondo è poliedrico, complesso e profondamente incarnato. La realtà viene interrogata, la attraversa, la soffre. E proprio perché la conosce con gli strumenti del pensiero scientifico e della sensibilità artistica, riesce a distillarne un’essenza poetica che è lucida e struggente adesione al vero .
Potremmo interpretare queste pagine come preghiere laiche , dove il dolore non è scandalo, ma materia sacra. L’autrice non supplica un miracolo: invoca una presenza. Non chiede il perché della sofferenza, ma la compagnia nel suo attraversamento. Ogni lirica è un’epiclesi, un’invocazione dello Spirito, ma in chiave umanissima: si attende non il divino che risolve, ma l’umano che comprende. Così, tra le righe di "Come sarà la notte...", "Mater dolorosa", "Presagio", si avverte il battito sommesso di una fede che conserva, incrollabile, la nostalgia della luce . In questo libro il dolore è sacro perché chiama a raccolta ciò che resta di umano in noi. Ed è già redenzione.
Fasoli Cascio ha scelto di far fiorire la propria arte poetica nel cratere fumante della storia . Le poesie "Guerra! (2003)", "Mariupol (2022 e 2023)", "Orrore a Gaza" superano la cronaca per farsi icone, affreschi lirici su un muro screpolato che è l’anima del nostro tempo. Ma non vi è retorica in queste pagine, solo compassione vera , quella che si inginocchia davanti al dolore altrui senza tentare di spiegarlo.
In "Guerra!", l’autrice evoca Babilonia e i suoi fiumi, trasformati in deserti in cui non si ode più canto. La guerra irrompe nel mattino di primavera con “carni straziate” e “tank che bruciano nel sole”: la scena non ha bisogno di commento, è epifania di un’ apocalisse senza gloria . Con "Mariupol", la scrittura diventa veglia funebre. Nel 2022, i versi si fanno voce per “le pale d’altare dorate” e i “volti dei bimbi” in fuga; nel 2023, tutto è cenere, e persino la Діва Марія, la Vergine delle icone, “piange”. Non c’è salvezza immediata, ma resta la supplica: “Mariupol non morire!”. Un grido nudo, senza artifici.
"Orrore a Gaza" è la poesia della stanchezza estrema : qui, la voce si spezza in una domanda che si fa preghiera: “Quando finirà questo orrore?”. È la domanda di chi ha visto troppo e sa che il mondo, forse, si è voltato altrove. In queste liriche la Storia diventa ferita incisa sulla carne del linguaggio. Ma ciò che colpisce è che, sotto ogni rovina, resista una fibra, un filo di voce, una speranza sussurrata.
In "Mater dolorosa", l'autrice plasma una figura archetipica che attraversa secoli e culture: la madre ai piedi della Croce . Lei è ogni madre, di ogni tempo, che ha tenuto il volto di un figlio tra le mani senza più potergli parlare. La poetessa la spoglia dall’immobilismo della statua sacra e la trasforma in una donna scarnificata dall’attesa e dalla resa: “eccoti ancor tra le braccia quel figlio, / per l’ultima volta, / e la prima.” Il lutto, in questa lirica, è inizio e fine insieme. La madre, in silenzio, ricuce la frattura del mondo. Ella non solo piange, ma serba. La madre è custode della memoria, la sola che può contenere il dolore senza distruggersi. La sua voce è preghiera e testimonianza, corpo e canto. È il grembo che continua a partorire senso, persino dopo la morte.
In "Dolce terra natia", la Toscana si fa madre, rifugio, respiro. I colli tra la valle di Pesa e l’Arno, gli olivi argentati, i cipressi che “tracciano contorni familiari” appartengono a una mappa emotiva, segreta, interiore. Il paesaggio si fa pelle, memoria incarnata: “tutta la storia tua sentir / nelle mie vene scorrere”. La campagna toscana consola più della parola, più della preghiera: è l’unica liturgia che non chiede nulla, se non lo sguardo. Qui la poesia si distende in un ritmo più ampio , lieve, quasi elegiaco . Non c’è più l’urgenza del grido, ma il bisogno del ritorno . Il paesaggio diventa luogo identitario, testimone del sé: vivere tra quelle colline è una forma di redenzione . In quel sole “a picco sulla creta bruna” c’è tutta la dignità del sopravvivere con grazia.
Fiorenza Fasoli Cascio scrive come si piange: a singhiozzi. La sua metrica non obbedisce a schemi rigidi, ma si spezza, si curva, s’interrompe, come il fiato breve di chi prega con il cuore in gola. Ogni verso è un passo esitante tra dolore e fede , ogni pausa è un silenzio denso di significato. La silloge è costellata di frasi brevi, isolate, che vibrano come sussurri o come grida represse. È un atto liturgico: l’autrice costruisce i suoi testi come litanie interiori, orazioni rotte, fatte per essere ascoltate nel proprio petto. Il ritmo alternato di suono e silenzio crea un effetto musicale misterioso, quasi sacro, come quello di un salmo recitato in una navata vuota.
È come se l’autrice scrivesse con le dita tremanti, non per incertezza, ma per verità . E in quel tremore c’è tutta la nobiltà della poesia. Fiorenza Fasoli Cascio scrive come chi ha visto tanto e con grande profondità, ogni poesia è un’apocalisse nel senso più autentico del termine greco: ἀποκάλυψις, disvelamento . E ciò che viene disvelato non è solo l’orrore, ma la possibilità .
La sua estetica è fatta di visioni : croci che si moltiplicano nei campi, lune insanguinate, volti impolverati di cenere, urla che salgono dal cuore della terra. Sono immagini bibliche, cosmiche, senza tempo, eppure drammaticamente contemporanee. Il sangue che bagna la terra in "Il girasole rosso" non marcisce, ma tinge un fiore. E questo fiore rosso è il segno che anche nel cuore del disastro può nascere una bellezza nuova , più intensa, più vera. Il linguaggio dell’autrice è mistico perché osa mostrare l’invisibile. È simbolico perché crede ancora nel potere del segno ed è apocalittico perché ha il coraggio di dire che la fine, talvolta, è l’unico inizio degno di essere scritto.
Potremmo dire che Fiorenza Fasoli Cascio scriva per custodire . Le sue parole cercano una verità che, pur se cruda, è sempre offerta con grazia. "Il girasole rosso" è memoria, sì, ma anche promessa. Promessa che qualcosa di sacro, di integro, di profondamente umano può ancora emergere dal buio. E forse è questo il compito supremo della poesia oggi: non salvarci, ma renderci degni del dolore che portiamo.
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