"Macchie di caffè sui miei libri", la cartografia emotiva dell’esistenza in poesia


C’è qualcosa di irrimediabilmente umano nell’ errore lieve e quotidiano di una tazza appoggiata male, nella distrazione che lascia sul foglio una macchia di caffè . È traccia, tempo che ha avuto il coraggio di depositarsi, testimonianza invisibile del vissuto che attraversa la pagina. “Macchie di caffè sui miei libri” , titolo della raccolta poetica di Stefania Lucchetti , pubblicata per il Gruppo Albatros il Filo , è a tutti gli effetti una dichiarazione poetica. La macchia non sempre si corregge: si accoglie.
Il libro si apre così, in punta di piedi, ma con la forza di chi ha abitato l’ombra e ne ha fatto parola. Ogni componimento è una variazione sul tema dell’ imperfezione che rivela, dell’intimità che resiste. È una poesia che non si impone, ma si offre, archetipica nel linguaggio, contemporanea nello sguardo. Ecco, allora, che la scrivania diventa altare, il libro corpo vivo, la macchia preghiera laica. È lì, in quel punto in cui il caffè sfiora l’inchiostro, che comincia il vero racconto: quello che non ha bisogno di essere perfetto, ma soltanto fedele alle emozioni che racconta. 
Stefania Lucchetti ha alle spalle una carriera articolata tra diritto e psicologia, per cui ha scritto per anni. “Macchie di caffè sui miei libri” segna il ritorno alla scrittura poetica messa da parte durante l’adolescenza, e lo fa con la forza di chi ha imparato a conoscere il silenzio . Le sue poesie sono mosse da un’esigenza espressiva che nasce dalla riflessione profonda e diventano dunque un invito, quasi controcorrente, ad abitare le crepe , a restare nelle pieghe dell’esperienza senza bisogno di risposte preconfezionate.
La poesia di Stefania Lucchetti sembra pensata per essere abitata . Si presenta come uno specchio opaco, nel quale il lettore è chiamato a riconoscersi, non senza fatica. È una scrittura che accoglie, che non impone un messaggio, ma suggerisce una presenza. Per questo, il lettore ideale della sua parola poetica è qualcuno disposto a sostare, a perdersi, a lasciarsi interpellare. Parla a chi ha attraversato almeno una volta un dolore, un’assenza, un ritorno. A chi sa che le parole non sempre risolvono, ma spesso accompagnano. È una raccolta per chi ha smesso di cercare risposte perfette e ha iniziato ad ascoltare le domande .
In questo, il lettore diventa co-autore dell’opera. È quest’ultimo a completare il senso, a decidere dove soffermarsi, cosa sentire, cosa lasciare sedimentare. Stefania Lucchetti non offre certezze: offre pagine in cui posare lo sguardo quando tutto il resto sembra sfuggire. Ed è proprio in questo spazio, così silenzioso e fragile, che nasce l’incontro.
Identità, maternità, solitudine, desiderio, rinascita : questi temi attraversano la raccolta, annodandosi come fili di un arazzo antico, in cui ogni nodo è una ferita, ma anche un punto di resistenza. La poetica di Lucchetti è una continua trasformazione: ogni dolore diventa soglia, ogni ferita un varco.
Il mito classico, nella sua scrittura è un codice vivo, capace di nominare emozioni e posture interiori del femminile . Dee come Atena, Afrodite, Era, Hekate scendono dall’Olimpo per abitare la quotidianità e rendere universali le esperienze più personali. Anche la casa, la città, il corpo diventano luoghi simbolici, teatri dell’essere . Lo stile dell’autrice alterna lirismo e prosa poetica, frasi spezzate e flussi continui. La ripetizione è formula magica, l’archetipo uno specchio: cerca una verità non filtrata che commuove proprio perché reale. 
Attraverso alcuni testi possiamo tracciare una mappa interpretativa dell’intera raccolta: nel componimento “Il filo di Arianna” , per esempio, l’archetipo classico viene riscritto da una voce ferita, ma consapevole. “Perché mi hai abbandonata poi / quando il mio scopo era compiuto, / gettata via come il filo ormai usato?” Qui, Arianna non è la figura passiva dell’aiutante mitica, ma una coscienza che reclama giustizia. È la madre, l’artista, la stratega, dimenticata dopo aver donato salvezza. Una denuncia collettiva e sommessa sulla marginalizzazione del femminile che crea e poi viene escluso dalla narrazione. Con “Fame” , Lucchetti affronta il corpo come contenitore di assenze e bisogni non detti: “Per evitare il dolore dell’angoscia / così l’unica cosa che provo è la fame…” La fame, qui, non è solo fisica. È fame di sguardi, di riconoscimento, di senso. In questi versi la poetessa tocca il tema dei disturbi alimentari senza retorica e restituisce al corpo la sua fragilità e la sua urgenza di essere visto. “Amore e Caos” esplora invece la maternità al di là di ogni idealizzazione: “Pensavo che l’amore camminasse dritto, / ma si muove e ondeggia costantemente…” La madre è spettatrice e protagonista di un amore che disfa le strutture, ma crea vita proprio nel suo ondeggiare. È un’ode al caos generativo, che Lucchetti racconta con tenerezza e sincerità. Infine, in “Il gatto di Schrödinger” , la poesia si fa riflessione ontologica: “Esisto senza uno spettatore? / Esisto se nessuno mi riconosce?” L’identità ha bisogno di essere vista per esistere. Una meditazione sulla solitudine, ma anche sull’intersoggettività: l’altro come garante della nostra realtà. Lucchetti, con voce ferma e vulnerabile, ci ricorda che l’invisibilità è una delle forme più profonde di dolore.
Scrive da una soglia, Lucchetti. La soglia è sempre un luogo scomodo, instabile, ma è anche il solo da cui si può vedere davvero: il quotidiano che si fa simbolo, il mito che si infila in un gesto materno, il caos che genera bellezza. Le sue parole sono ponti, non rifugi. È una poesia che non edulcora il dolore, non lo estetizza per renderlo consumabile. Lo attraversa . Lo illumina dall’interno, senza travestirlo da redenzione.
Una delle caratteristiche più affascinanti della raccolta è la pluralità di voci che la abitano. Stefania Lucchetti non scrive da un solo io lirico, ma da una costellazione di sé che si alternano, si sovrappongono, si contraddicono persino, come accade nella vita vera. C’è la donna che ha amato e ha perso, la madre stanca ma piena di tenerezza, la figlia che porta il lutto dentro come una radice muta, la professionista che lotta ogni giorno contro le aspettative e le invisibilità.
Ogni poesia è il punto di vista di una diversa incarnazione dell’identità femminile. È Penelope che tesse e disfa, Eva che lavora “di nascosto”, Cassandra che parla e non viene creduta, Atena che sorregge il mondo ma sente le ginocchia cedere. Lucchetti compone un coro interiore che non urla all’unisono, ma vibra in armonie imperfette, e proprio per questo vere.
L’opera di Stefania Lucchetti apre una finestra su un mondo interiore stratificato , veemente, non addomesticato. È una voce che ha atteso a lungo il momento giusto per emergere, e che ora si affaccia alla scena letteraria con il coraggio di chi ha molto da dire. 
In fin dei conti, le macchie di caffè, così come le cicatrici dell’anima, non si cancellano: si trasformano in mappe. Indicazioni involontarie, forse, ma preziose. Stefania Lucchetti ha lasciato sulle sue pagine la cartografia emotiva di un’esistenza osservata con radicale onestà. I suoi versi pongono domande che restano, che sedimentano. In un tempo in cui la parola è spesso ridotta a consumo, Lucchetti restituisce alla poesia il suo compito più alto: quello di farci sostare, e pensare .
Sono mappe che ci ricordano che siamo stati, e siamo ancora, attraversati . Se la poesia è un linguaggio che non si può silenziare, allora che sia la macchia, e non la parola perfetta, a guidarci, perché è lì che inizia davvero il viaggio.
 

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